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Commedia della vanità. L'ipertrofia critica di Elias Canetti
Dal 29 gennaio al 9 febbraio del 2020 al Teatro Argentina di Roma è andata in scena la Commedia della vanità (Komödie der Eitelkeit): dramma scritto fra il 1933 e il 1934, rappresenta una delle opere giovanili di Elias Canetti, scrittore e filosofo bulgaro, di origine ebreo-sefardita e di lingua tedesca, premio Nobel per la letteratura nel 1981.
Peraltro, tutti i testi in cui l’autore si dedica alla scrittura creativa e sperimentale appartengono alla sua giovinezza: tre drammi (Nozze, Commedia della vanità e Vite a scadenza) e un romanzo (Auto da fè), tutti concepiti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta (a parte Vite a scadenza, che è del 1952). Il resto della produzione di questo autore straordinario, nato nel 1905, ha infatti carattere saggistico, diaristico e aforistico: si può considerare un filosofo nello stesso modo in cui consideriamo tale Friedrich Nietzsche, anch'egli proclive a una scrittura che prediligeva l'aforisma o il saggio breve. Pur con i difetti, l'oltranzismo, l'ipertrofia e l'esagerazione sperimentale delle opere della giovinezzza, Commedia della vanità è una sorta di laboratorio critico in cui germinano tutte le problematiche che lo scrittore affronterà sistematicamente dentro la sua opera più ambiziosa: il saggio Massa e Potere, pubblicato venticinque anni più tardi. In una realtà distopica, ma così terribilmente vicina all’Europa degli anni Trenta (e per certi versi a quella attuale), un ukase proibisce rigorosamente la produzione e riproduzione delle immagini e l’uso degli specchi, punendo con la pena di morte chi li fabbrica e con varie pene detentive chi li usa, li acquista o anche semplicemente li detiene; attraverso questa finzione apocalittica, Canetti riflette sulla relazione tra il potere, la morte e il binomio identità-massa.
Lo spettacolo dura ben quattro ore, intervalli compresi. Peraltro, come ha spiegato il regista, Claudio Longhi, nella sua versione integrale il copione avrebbe dato luogo a uno spettacolo di circa sette ore. Con grande abilità, la troupe è riuscita a operare una sorta di “riduzione in pianta”, senza rendere più confusa di quanto non sia già la struttura drammaturgica, né tentare inutili trasposizioni contemporanee della vicenda; l’unico grande intervento si è concentrato in una scelta di “drammaturgia seconda”, ossia di scrittura scenica in cui i personaggi sulla scena incarnano i possibili diversi stadi di evoluzione del potere: si tratta di Joseph Barloch, Joseph Garaus e Heinrich Föhn. Per esplicita indicazione dell’autore, la fisionomia dei primi due è identica; le varie parti testuali documentano bene il continuo atto di riconoscimento reciproco, istituendo il gioco dello specchio (probabilmente memore della dialettica del riconoscimento della Fenomenologia dello spirito di Hegel). Unendo suggestioni tratte da Massa e Potere a questa peculiare indicazione di Canetti, i tre personaggi sono stati quasi conglomerati in un solo, affidandoli a uno stesso attore e creando così una sorta di figura trasversale che, come un grande burattinaio, indossa i panni ora di uno ora dell’altro, entrando e uscendo continuamente dal ruolo e serpeggiando all’interno di tutto il testo: così anche gli altri personaggi diventano emanazioni del potere stesso. Seguendo una logica speculare, anche le tre figure femminili di Anna Barloch, Louise e Leda Frisch, legate al trittico dei protagonisti, hanno subito un analogo intervento, dato che sono state interpretate da una sola attrice.
In un passaggio di Massa e potere, Canetti osserva che "la massa ama particolarmente distruggere case e oggetti: oggetti frangibili come vetri di finestre, specchi, quadri e stoviglie". Dalla distruzione degli oggetti (tra cui non a caso sono menzionati gli specchi) al rogo dei libri il passo è breve. È come se proprio il rogo dei libri fosse stato a tal punto simbolicamente esaltato fino al divieto totale di specchiarsi e di perdere sé stessi. Già nel 1933, sotto l'impressione della presa del potere da parte di Adolf Hitler e del diluvio di divieti che ne seguirono, "che potevano essere usati per generare masse entusiaste", la Commedia della vanità sembrava molto di più di una semplice satira della morale annunciata nel titolo. Dall'idea di base, all'inizio quasi divertente, di un divieto generale degli specchi e dei loro effetti sulla disposizione psicologica degli esseri umani, Canetti sviluppa una parabola satirico-filosofica sul totalitarismo e sulle psicosi di massa che lo accompagnano. L'opera riprende così un tema che per decenni ha impegnato Canetti: il significato sociopsicologico e filosofico dei meccanismi del potere in rapporto alle grandi folle delle società del Novecento. La prima parte della commedia ("La grande seduzione") rivela il meccanismo psicologico di massa dell'obbedienza all'autorità condotta sotto la minaccia della violenza. Al fine di abolire la vanità, che in definitiva rappresenta l'individualità dell'essere umano, il sistema autoritario non si limita a mettere al bando tutti gli specchi, ma progressivamente estende il divieto anche alle macchine fotografiche e ai ritratti, proibendo quindi qualsiasi rappresentazione dell'essere umano. Le violazioni più gravi sono punibili con la pena di morte, le altre con pene detentive comunque sproporzionate. Canetti crea una situazione di base e permette ai suoi personaggi scenici di reagire a questa sorta di macabro e grottesco Gedankenexperiment (esperimento di pensiero) in varie maniere: dalla combustione di immagini come in una festa popolare alla lenta e agonizzante perdita di sé, dalla fanatizzazione dei singoli rappresentanti di una nuova dottrina della salvezza a un vivace e fiorente mercato nero. C'è un personaggio, il banditore Wondrak, vestito come un pagliaggio da circo e con una sorta di vocazione necrofila, che masochisticamente si compiace della stretta autoritaria del regime: "e noi e noi e noi e noi, miei signori e padroni". Vengono poi presentate circa trenta figure rappresentative per l'intera popolazione: attraverso l'effetto ipnotico dell'azione collettiva, la perdita dell'immagine speculare diventa un simbolo dell'impossibilità di qualsiasi tipo di riflessione su sé stessi.
Nella seconda e terza parte, a dieci anni di distanza dalle scene iniziali, assistiamo alla vita quotidiana del paese senza specchio, che soffre delle deformazioni psicologiche e sociali dei suoi cittadini. La perdita di identità e di lingua trova il suo culmine drammatico nel suicidio di massa, che preannuncia la distruzione dell'ordine comunitario originario. Nella fase finale del processo di deformazione troviamo dei sanatori allestiti come "laboratori-specchio", in cui persone che sono diventate autistiche siedono senza mezzi termini di fronte alla loro immagine. Quando si liberano i poteri esplosivi della coscienza dei pazienti di un tempo, tutti strappano gli specchi dai loro ancoraggi e prendono d'assalto le strade, gridando "io, io, io". L'Io soppresso cerca la sua liberazione in un narcisismo di massa, ma un ritorno alla vera individualità non sembra più possibile. Così, alla fine, il tentativo di estinguere completamente l'individuo fallisce, ma al prezzo di creare una totale anomia e anonimia degli individui nella massa. Gli attori hanno interpretato i loro ruoli dando vita a una sorta di teatro espressionista, con i dialoghi ridotti al minimo, ma con i costumi assolutamente rappresentativi del messaggio di Canetti. Anche le musiche, lievi e delicate, hanno accompagnato la recitazione senza invasività, ma pennellando accortamente i passaggi più critici.