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Der Park. Le ali ferite del Sogno
Per un mese intero il Parco di Peter Stein, Der Park, sarà all'Argentina dal 5 al 31 maggio, un'accoglienza all'estate ed ai suoi sapori di passione, in un “girotondo” che riprende Schnitzler quanto gravido di intemperanze qualificative. Come se si dovesse in fondo qualificare l'amore, il sesso, la passione, per la loro perdita di senso. Ed allora sul palco si avvicendano coppie su coppie di svariate specie: a cominciare da quella, sempre conflittuale come nell'originale del Bardo, di Titania ed Oberon, Maddalena Crippa e Paolo Graziosi.
Nella rilettura di Botho Strauss, scritta nel '83 e riadattata oggi da Stein all'epoca digitale, troviamo lo Zeitgeist che in fondo ci frastorna e non capiamo fino in fondo: quella “voglia” di cui tanto parla lo spettacolo e che mai si traduce in desiderio perché è senza senso, incapace di forza, tantomeno di potenza che non sia quella efferata della violenza oppure quella subdola della seduzione fine a sé stessa, dell'ostentazione, del martirio efferato di Pasifae imprigionata in un corpo animale che non è il suo e la dilania.
Lo spettacolo è potente e lo sarebbe stato ancora di più senza certi prolungamenti a volte insapori, ed estenuanti se superano le ben quattro ore di recita. Perché ci addentriamo subito nel Parco che è un circo di giocolieri che invece di giocare “duro” con la vita se ne astiene e ne subisce il fascino superficiale, abbarbicandosi ognuno nei propri pregiudizi o nelle proprie paure, come la doppia coppia di Helen/Georg e Helma/Wolf, vestita di bianco (metaforico?), che formula prima un triangolo amoroso e poi si separa come un'entità che si componeva solo sulla base ipocrita dell'attrazione fisica senza mai scoprirsi nel profondo.
L'oro coniato da Wagner nel Rheingold e che si ode attraverso la “musica della trasformazione” (Das Rheingold, Atto I scena terza), le percussioni che rullano come fabbri martellanti sul maledetto oro di Alberich rubato alle Figlie del Reno, sono propriamente il correlativo oggettivo di quell'amore che non è altro che un brillio dispersosi presto nell'aere, e del tutto effimero. Ed allora lo scultore dell'infinito (Brancusi), oppure il pittore con le colombe intorno (Matisse), e colui che ha lo stesso nome dell'inventore del “buon selvaggio” (Rousseau), nell'abbaino di luce, rilucono solo in quella luna rossa circondata dagli alberi che ha dipinto fra gli uomini, senza ch'essi si inoltrassero nei versi che Oberon e Titania citano dal capolavoro shakespiriano.
Irrisolto come lo stesso topos principale, consola solo il ricordo del bel Danubio Blu oppure il Sogno nelle note di Mendelssohn, che trapelano fra una scena e l'altra, tra le belle partiture originali di Massimiliano Gagliardi. Risuona triste un'ultima domanda che suona come uno sprone, attraverso la voce di brillantina (come l'albero nel parco cittadino che occupano Titania e Oberon): “Chi più diventa folle per un altro?” Il sogno si infrange se neppure incontra per librarsi le ali della follia.