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Django Unchained. Tarantino travolge e rimodella l’iconografia western
Di certo Quentin Tarantino non è uno che mostri eccessivi timori reverenziali, quando si tratta di giocare con le più disparate mitologie cinematografiche, mescolando tra loro cultura popolare e ambizioni narrative che volano alto. Tutto nel segno di una vocazione post-moderna, che non è mero esercizio stilistico ma rilettura attenta e partecipe. È ovvio che non in tutti i film una simile predisposizione rifulga alla stessa maniera. Ma se in Bastardi senza gloria il risultato di tali inclinazioni è stato, a detta di chi scrive, uno dei migliori nella carriera di questo sfacciato e irriverente talento, Django Unchained finisce per avvicinarvisi molto.
Pur con qualche difettuccio e approssimazione in più, rispetto all’altro titolo testé citato, il dipanarsi del racconto in Django Unchained è ugualmente pirotecnico, intenso, incalzante, sorprendente, in grado di ammaliare sia nella sua componente ludica che nelle strategie usate per costruire una tensione ancorata, per l’ennesima volta, a dialoghi che sono vera e propria tela di ragno. In ciò l’apporto di un attore come Christoph Waltz, strepitoso sia sul piano propriamente dialettico che per la sua micro-mimica facciale puntuale e arguta, si è dimostrato ancora determinante: dall’implacabile ufficiale nazista di Inglourious Basterds allo scaltro Dr. King Schultz, bounty killer di origine teutonica che attraversa paesaggi western usando un carrettino da dentista come copertura, vi è un fil rouge fatto di parlantina, metodo e sguardi colmi di ironia. Solo che queste doti sono stavolta al servizio di una giusta causa, visto che il pistolero dall’accento tedesco ha preso a cuore il destino di Django, ex schiavo nero da lui liberato e in procinto poi di trasformarsi in giustiziere. Davvero un bel passaggio, quello dalle piantagioni di cotone alle armi da fuoco e agli esplosivi stessi, di cui farà le spese persino il Tarantino attore, in un irresistibile autodafé cinefilo.
Sempre a proposito di cinefilia, produce in egual misura divertimento e lampi di commozione l’incontro tra il nuovo Django, interpretato con vigore da Jamie Foxx, ed il leggendario Franco Nero che lo aveva incarnato a suo tempo, omaggiato qui di un simpatico cameo. “Can you spell it?” “D-J-A-N-G-O. With silent D" “I know”. Secco e comunque significativo il dialogo tra i due, posti davanti al bancone della mescita privata di Leonardo DiCaprio, che nella circostanza è subdolo e arrogante latifondista del Sud. Ecco, se solo si aggiunge ai nomi già citati quello di Samuel L. Jackson, mefistofelico negro votato alla causa dei padroni cui toccherà far esplodere le tensioni maturate nell’ultima parte del film, dovrebbe essere più chiaro quanto Django Unchained sia anche un encomiabile film di attori, disposti in taluni casi a giocare intelligentemente con la propria immagine.
Tarantino è quindi sapiente demiurgo che sa trasfigurare non solo l’iconografia del far west, ma anche le personali mitologie legate ai ruoli, agli attori, all’alone che li circonda. Ma il gioco non è fine a sé stesso. La traslitterazione dell’archetipo cinematografico di Django, trasformato per l’occasione da pistolero bianco in nero liberato dalla schiavitù, che alla vigilia della Guerra di Secessione sa prendersi le sue rivincite vendicandosi dei propri aguzzini e lottando per la donna che ama, è una tela pronta a riempirsi di diversi colori: tonalità che variano da quelle pulp delle scene più cruente, ad altre che ben rappresentano l’ironia delle situazioni o lo sfondo romantico della ricerca, con la bella schiava ancora sottoposta a sevizie dai beceri sudisti che attende di essere trovata e resa libera.
Un mood progressista sottende quindi il gusto dell’aneddotica e lo stile frizzante, eclettico, del film di Tarantino, tant’è che affrettato e ingeneroso è parso il giudizio di certi polemisti (tra loro, purtroppo, vi è lo stesso Spike Lee, il quale ha commesso l’errore di esprimersi ancora prima di aver visto l’opera e per sentito dire) ai quali non è andato giù tale approccio a un’epopea indubbiamente dolorosa, come quella della schiavitù negli Stati Uniti d’America. Ma non sempre la ricerca del “politically correct” a tutti i costi, come Tarantino insegna, cinematograficamente è pratica giusta o garanzia di sani princìpi.