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Dove cadono le ombre.Il genocidio svizzero
La regista Valentina Pedicini, realizzando il film: Dove Cadono le Ombre, contribuisce, nel suo piccolo, a far conoscere l’atroce genocidio avvenuto dal 1926 al 1986 in Svizzera, fin ora tenuto accuratamente nascosto, con l’aiuto della sopravvissuta Mariella Meher, conosciuta per i suoi romanzi e poesie.
L’episodio coinvolse più di duemila bambini jenisch, zingari di origine tedesca, sottratti e rinchiusi in ospedali psichiatrici, orfanotrofi e prigioni dall’associazione Pro Juventute, il cui obiettivo era quello di estirpare il fenomeno del nomadismo cancellando l’intera etnia, sottoponendo i fanciulli a sperimentazioni mediche e scientifiche, come la sterilizzazione, e violente punizioni corporali, che ne annullavano l’identità, la mente e il cuore, in modo da renderli dei perfetti cittadini svizzeri.
La pellicola vede come protagonisti Anna (Federica Rossellini), infermiera in una struttura per anziani e Hans (Josafat Vagni), suo assistente, entrambi superstiti degli abusi, che con il ricovero nell’istituto dell’anziana Gertrud (Elena Cotta), carnefice delle torture subite, si troveranno costretti ad affrontare il passato. Le due donne saranno le vere figure principali di un confronto-scontro estremamente duro, in cui la vittima farà fatica a staccarsi dalla sua ex aguzzina, sempre più convinta di aver agito nel modo giusto, atteggiamento che spingerà Anna a liberarsi, dando sfogo alla sua rabbia, facendo, così, il primo passo per aprirsi al mondo circostante ed andare avanti.
L’argomento è trattato con estrema delicatezza e profondità, essendo umanamente inaccettabile: episodi di intolleranza sono all’ordine del giorno, poiché si è giunti ad un livello di saturazione della società, ma cancellare un popolo per eliminare un problema va oltre l’immaginazione, così come è impensabile trattare degli esseri umani, dei bambini, riprogrammandoli a proprio piacimento come delle macchine. Valentina Pedicini, realizza un’opera di grande impatto emotivo, riuscendo a far percepire il vuoto e il buio dell’anima causato da anni di sevizie, la rigidità e la freddezza degli ambienti, dall’arredamento essenziale con le finestre chiuse da cui filtra pochissima luce, enfatizzano lo stato di chiusura, un isolamento dell’anima volontario al fine di anestetizzare gli orrendi ricordi, le sofferenze e il disorientamento causato dal non sapersi più riconoscere.
Unica pecca, se così si può dire, il ritmo a volte troppo lento, ma che non penalizza il racconto, emozionante, coinvolgente che colpisce sensibilmente, portando a riflettere sul valore attribuito alla vita, pur di raggiungere una perfezione che non esiste.