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Father and son. La paternità negli occhi del figlio
Il sentirsi padre, a differenza dell'istinto materno, è un sentimento che non nasce immediatamente con la nascita di un figlio ma si costruisce nel tempo. Un sentimento che trova nello sguardo del figlio il suo vero e autentico riconoscimento. Giovedì 3 aprile esce nelle sale italiane Father and son, diretto dal regista giapponese Kore-eda Hirokazu e vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes 2013. Un film che tratteggia con mano delicata la complessità del tema della paternità all'interno delle attuali dinamiche sociali e dell'odierna crisi dei rapporti familiari.
Ryota Nonomya (Fukuyama Masaharu) è un imprenditore di successo e un padre rigido ed esigente. Un giorno, lui e sua moglie Midori (Ono Machiko), ricevono una telefonata inattesa dall'ospedale: il loro bambino di sei anni, Keita, non è il loro figlio biologico. A causa di un errore – o forse di una scelta deliberata da parte di qualcuno del personale medico – subito dopo il parto il loro figlio fu scambiato con quello della famiglia Saiki. La legge li pone di fronte alla scelta se scambiarsi o no i bambini. Per affrontare tale scelta con il giusto grado di consapevolezza, le due famiglie decidono di conoscersi e di trascorrere del tempo insieme. Ryota scopre che il vero padre di Keita ha una piccola bottega di materiali elettrici, è un uomo semplice e un po' rozzo, ma allo stesso tempo un genitore molto affettuoso e presente. Midori e Yukari (Maki Yoko), la moglie di Yudai (Lily Franky), trovano, invece, terreno comune nel senso di perdita per i rispettivi figli, ma non riescono a opporsi alla decisione stentorea di Ryota di fare lo scambio, in nome di un dovere di sangue. In realtà, quello che lo spinge a una tale decisione è la volontà di concedersi una nuova chance di essere un buon padre. Ma il tempo lo metterà di fronte alle proprie responsabilità.
Father and son ha il respiro del grande cinema giapponese. Ha nell'amabile pudore con cui modella i suoi personaggi e le loro scelte, anche quelle più crudeli, la sua qualità più raffinata e colta, tale da evitare il rischio di comode scorciatoie nel melò. Ciò che commuove, nonostante la lucidità mantenuta fino alla fine, è il profondo senso di adesione all'interiorità dei protagonisti, soprattutto dei bambini. Si avverte con pienezza l'urgenza quasi personale di Kore-eda Hirokazu che da padre si interroga sulla paternità senza risparmiare amare verità.
L'illusione con cui Ryota si autogiustifica, anche nei suoi gesti più cinici e opportunistici, è frutto di un profondo senso di smarrimento sul significato dell'essere padre, derivato da un vuoto ereditato dal suo stesso genitore. Quello che scopre lungo il suo percorso di crescita – la “missione” che affida a Keita e che in realtà affronta lui stesso – è che non potrà mai essere lui a scegliere suo figlio, ma sarà sempre suo figlio a scegliere lui. E negli scatti di Keita che Ryota trova nella macchina fotografica, vede finalmente il padre che non è mai saputo essere, eppure che è sempre vissuto negli occhi di suo figlio.