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Festa del Cinema di Roma 11° edizione. Il prezzo della libertà
Molti film americani ed inglesi quest'anno nell'edizione numero 11 della Festa del Cinema di Roma, quindi, diciamolo senza falsi “borghesismi”, film per lo più “visibili”, più digeribili da tutti, compresi quei colleghi che tanto storciono il naso ma si sentono ronfare alle proiezioni di alcuni “lentissimi” film non anglofoni assolutamente da ammirare – a dir loro – da un punto di vista artistico, o meglio, “cinematografico” ma che poi, appunto, nel buio della sala, fanno dormire in primis loro.
Ne abbiamo contati ben 22 di film nella selezione ufficiale, tra produzioni inglesi ed americane, il doppio del numero dell'edizione del festival e, fra quelli visionati, ce ne sono due assolutamente da vedere, entrambi intorno al tema della libertà, ormai agli sgoccioli, altro che statuto americano: Snowden di Oliver Stone infatti ci racconta come, con la scusa poco giustificata della sicurezza, si è abolita alcuna cautela nell'osservazione e nel controllo globale. Edward Snowden, tuttora rifugiato in Russia, a Mosca, da cui vengono trasmessi i lacerti dell'ultima intervista “alive” nei minuti finali del film, è un informatico geniale che, al servizio della CIA ed NSA (National Security Agency) ha spiato milioni di persone per conto loro, rendendosi conto ad un certo punto che lui era il primo ad essere sotto controllo. Nel film si vede una telecamera che attraverso un controllo remoto viene accesa a computer in stato di sospesione e può registrare tutto quello che avviene nella sua gittata.
Interessante anche l'excursus con Oliver Stone sulla sua carriera nell'incontro con il pubblico, da Nato il 4 luglio fino a Platoon, in cui si ritrova lo stesso impegno a fotografare l'attualità meno da digerire per gli americani in particolare. E si può notare, in proposito, una forte critica al governo Obama proprio sull'azione contro Snowden che è diventato un ricercato per aver devoluto all'informazione internazionale segreti di stato, ossia che gli Stati Uniti infrangono quel diritto alla privacy ed alla libertà di espressione di cui tanto si vantano sbandierando il Freedom of Information Act (FOIA).
Un altro film però ci ha colpito ancora di più ed è quello che ha vinto due premi al Sundance Film Festival, quello del pubblico e quello speciale della giuria: è The Birth of a Nation, che rifà il verso al film muto di Griffith del 1915, che invece inneggiava al segregazionismo ed al Ku Klux Klan. Nate Parker, 37 anni al suo primo lungometraggio, dirige e interpreta Nat Turner (Contea di Southampton, 2 ottobre 1800 – Courtland, 11 novembre 1831), un schiavo statunitense che guidò una delle prime rivolte degli schiavi, scoppiata nella Contea di Southampton in Virginia nell'agosto 1831. Parker ha scritto anche la sceneggiatura di un film crudo, autentico, che fa tremare di rabbia quando si nota come erano trattati i neri ai tempi (non troppo lontani) della schiavitù americana: come degli animali, l'immagine della ragazzina bianca che tira la ragazzina nera col guinzaglio al collo è indelebile quanto le violenze e le torture cui sono sottoposti gli schiavi, dallo strappo dei denti perché non vogliono mangiare per protesta contro i maltrattamenti e le frustate continui, fino allo stupro di gruppo della moglie di Nat Turner, Cherry.
Quel che si rileva da questi due film è lo stato dignitoso che hanno in comune i due protagonisti: un nero ed un bianco, Turner e Snowden, con due battaglie diverse entrambe per la libertà. L'una per i diritti civili, o potremmo meglio dire lo “status di umano” dei neri d'America, schiavizzati in base alla logica dello sfruttamento disumano, iniquo, contro qualsiasi criterio cristiano che invece Nat Turner rivendica anche accanto al boia, insuperabile per la forza e la potenza che coerentemente lo guida fin nel braccio della morte. L'altra, fredda, è la battaglia per il diritto all'informazione come al non essere sorvegliati, di Snowden, che viene ipocritamente negata dagli Stati Uniti dentro e fuori dei suoi stati, come a dire che loro possono tutto, dall'uccidere a bastonate un nero per le strade di Los Angeles o della Carolina di oggi, fino allo spiare ogni singola sillaba che esce dalla nostra bocca per diventare parola, quella parola che ha costruito sul sangue dei neri d'America una nazione che ancora oggi li separa dai bianchi con un velo invisibile; quella stessa che fa credere ai neri in divisa che siano superiori e possano picchiare o uccidere un loro “fratello”, quello stesso che lo ha condotto alla libertà.