Florence. Il coraggio di una donna nella "terra dei liberi"

Articolo di: 
Marcovalerio Di Schiena
Florence

È nelle sale, prodotto da Pathé, BBC Films, Qwerty Films, per la regia di Stephen Frears, Florence, con Meryl Streep (Florence Foster Jenkins) e Hugh Grant (St. Clair Bayfield). New York City, 1944. Una donna, un uomo, marito e moglie: la loro unione è più salda che mai. Lei è una soprano, ma si potrebbe dirla una “velleitaria” del canto, una donna un po’ vana, ma quale cantante non lo è? Quale artista, quale persona di “successo” non lo sono?

Certo, il fascino si lascia cogliere solo se sa rendersi prezioso, se figlio della fede. E una fede incrollabile sembra sorreggere queste due anime gentili, lei, Florence Foster Jenkins (nata Narcissa Florence Foster) e lui, un attore inglese, John St. Clair Roberts, noto come St. Clair Bayfield.

Un’unione tenace, la loro, che però non celebra tutti i suoi fasti, vittima com’è dell’ignoranza e della bassezza altrui. Così, di comune accordo, egli dimora altrove, sempre a New York, ma in un altro appartamento. Lì St. Clair riceve la sua bella fidanzata, una devota ma non troppo di questo bel gentiluomo in gessato, dai modi fini e dall’ironia impareggiata, che per Florence si prodiga in mille modi. Si prodiga al punto da nasconderle tutte le recensioni negative.

Florence è una vera combattente: non si arrende a nulla, né alla malattia, che combatte con orgoglio, né all’evidenza. Apparentemente convinta di essere una virtuosa del canto, in realtà fa del male anche a Mozart, come testimonia un video dal titolo crudele che trovate su Youtube. Sì, perché Florence ha anche inciso. Suscitando, tra i fischi e gli ululati di rito, e di sincero benvenuto, anche le risa di tutti i cafonacci e degli scrocconi di New York City e del suo paese in genere, persone sfortunate anche più di lei e che questa donna a suo modo eroica tentò come poté di sostenere e persino di omaggiare.

Lei, che aveva sempre voluto cantare, si era scontrata con l’ottusità e la ristrettezza di vedute borghesi; lei, che si era illusa di essere pur qualcuno, che riceveva e beneficava Toscanini, con il quale – il labiale della Streep non mente – parlava in italiano! Lei, che era stata esclusa dalla famiglia e dunque dalla propriety, ovvero dalle usanze, creanze e frequentazioni della buona società, oltre che dalla property, ossia dagli averi; lei, che si era guadagnata onestamente il pane con le lezioni di pianoforte. Lei, la turlupinata dal marito – che un decente mestiere rispettabilmente borghese pur l’aveva, ma a cui mancava un’etica – tentò comunque di prenderla, qualche lezione di canto. Da grande, da adulta, quanto era forse tardi ormai. Tentò il possibile. Tentò secondo la propria misura. Andò, non certo spedita, ma al proprio passo. Però misura e passo erano decisamente inadeguati a quel mondo, spietatamente selettivo.

Un mondo pronto non solo a turlupinare e ad escludere i deboli, ma a metterli alla berlina, aspetto inquietante e mostruoso, vera altra faccia della “terra dei liberi, casa dei coraggiosi” (cfr. “The Star-Spangled Banner”, inno nazionale degli USA), che tutti i liberi e i coraggiosi accoglie. E quello di Florence è certamente coraggio, un coraggio un po’ folle che si tramuta in temerità, un coraggio che si fa e si vuole vanità, che aspira a un po’ di quella cara buona vecchia propriety di cui sopra, a quella, però, degli eletti dell’anima, degli amanti dell’arte e della musica. In questa propriety trova posto l’attore non eccelso impersonato da Hugh Grant, che con i suoi improbabili monologhi riesce a impressionare solo qualche americano sprovveduto e duro d’orecchi, una persona gentile e modesta, alla quale molto si concede in buona parte grazie all’eloquio forbito e ai modi squisiti, privi di affettazione, alle sue naturali affabilità e civiltà sulle quali è letteralmente imposta la disciplina della classe e della distinzione, che consentono di risaltare in un mondo anche troppo difficile, nel quale in genere il rispetto che si ha degli altri non chiama a sé l’altrui rispetto.

E Florence sembra librarsi, forse non beata, tra le altrui miserie e bassezze, alle quali risponde ora sperduta ora facendo spallucce, e procedendo fragile, tenera, talora goffa, ma mai supplichevole. Sa che il dovere dell’adulto, di chi è tale psichicamente, è dare, donare. Non chiedere. E lei non chiede. Semmai impone. Se a qualcuno deve proprio chiedere, si rivolge all’uomo al quale ha ridonato la vita. I mezzi non dovevano mancare. Anzi soldi ne giravano, anche troppi: una tardiva eredità paterna. Forse un rimorso di coscienza, che beneficava senza restituire quanto era stato sottratto. Non restituiva la gioventù, non la freschezza del tocco sui tasti del pianoforte, non la gioia di vivere. “E allora – sembrano dire i due – rendiamoci la vita facile, noi anime gentili, anziché torturarci col talento che non abbiamo potuto costruire e che forse mai avremo!”

Ecco perché, almeno in questo caso, davvero i soldi non fanno la felicità, come recita un adagio non proprio ipocrita. Hugh Grant dice di essere felice, perché ha abbandonato ogni ambizione. Ambizione sempre smodata in questo mondo ingrato e folle? Ma allora che cosa rimane? Meravigliosamente smodata e folle è Florence; e se di “storia-problema” si può parlare anche qui, diciamo che indubbiamente si può vivere all’insegna di una grande passione, probabilmente non rivendicata sino in fondo, oppure negando del tutto ogni passione vera e amando molto molte cose. Ma che ne è di noi, se ogni passione è ridotta a divertimento (leggasi “sviamento, distrazione”, in senso etimologico), e il divertimento è propriamente fuga da sé, mentre il rimanere splendidamente limitati, perché profondi, è la cifra dell’essere sé? Appunto, that is the question, qui si gioca forse la differenza, forse solo apparente, tra Florence e St. Clair, marito e moglie, amici, sodali, complici.

Anche questa pellicola è davvero buona. La fotografia e gli interni sono buoni. La recitazione è di ottimo livello. La cura dei dettagli è meticolosa: le “stecche” della sfortunata Florence sono, se possibile, persino acuite e aggravate dalla bravura della Streep, che forse un poco strafà, ma che sa, con una recitazione riccamente modulata e degna di lei, dare a questa donna la dignità che ella conservò per tutta la sua travagliata esistenza, un’esistenza non breve, ma neppure lunga (1868-1944). La Streep dà dunque di sé ottima prova, ma questo era forse scritto nelle cose stesse: recita bene la parte della svampita, della folle, della vanagloriosa, fa allo spartito ciò che nessuno dei vostri peggiori amici cantori saprebbe fare, in un giorno di luna piena; anche Hugh Grant ci consegna un’ottima esecuzione.

Su questo attore varrebbe la pena di spendere forse qualche parola in più. Per chi associa questo nome soltanto a Four Weddings and a Funeral, Mickey Blue Eyes, Notting Hill, Bridget Jones's Diary o About a Boy, val forse la pena di riscoprirlo, il ragazzo (classe 1960). Sì, perché, smessi i panni del giovine albionico di belle speranze, quelli, per intenderci, del belloccio di turno, mai “belloccio” fino in fondo, perché mai manichino, quasi mai patinato (difficili i suoi rapporti coi media) e men che meno platinato, quest’uomo, l’artista maturo che già in Extreme Measures (1996) dette, affiancando tanto di Gene Hackman, ottima prova di sé con una recitazione intensa ed appassionata, oltre che efficace, qui conferma – se necessario – le sue ottime doti attoriali.

E allora funziona questa Florence, funziona come film, funziona come narrazione, funziona bene il suo ritmo veloce e agile, che impone l’improvviso colpo di coda e la subitanea resipiscenza degli zoticoni, funziona bene St. Clair. Funziona perché, sebbene questi fosse stato un avventuriero, anch’egli rifiutato, anch’egli uno sbandato, benché si fosse imbarcato per la Nuova Zelanda e avesse poi forse romanzato le proprie avventure, seppure in fondo sia vero che i due non vissero tanto a lungo senza astuzie, è pur vero però che tutto ciò che facevano pagavano in prima persona. Tutto reso senza falsi pietismi e con l’umorismo che degnamente caratterizzò i due. Ed è vero che ci fu comunque da parte loro un grande candore, almeno nella ricerca dell’autenticità, che essi trovarono. E questo merita rispetto. Nel trovarsi, essi forse in parte si ri-trovano. Sembrano dire basta all’egotismo vuoto, basta all’esser centrati solo su di sé. Forse una lezione di vita da parte di due artisti maturi? Vi lasciamo con questa domanda. Buona visione.

Pubblicato in: 
GN10 Anno IX 6 gennaio 2017
Scheda
Titolo completo: 

Florence
Titolo originale:    Florence Foster Jenkins
Lingua originale:    inglese
Paese di produzione:    Regno Unito, Francia
Anno:    2016
Durata:    110 min

Regia:    Stephen Frears
Sceneggiatura:    Nicholas Martin
Produttore:    Michael Kuhn, Tracey Seaward
Produttore esecutivo:    Christine Langan, Cameron McCracken, Malcolm Ritchie
Casa di produzione:    BBC Films, Qwerty Films, Pathé
Distribuzione (Italia):    Lucky Red
Fotografia:    Danny Cohen
Montaggio:   Valerio Bonelli
Musiche:    Alexandre Desplat
Costumi:   Consolata Boyle

Interpreti e personaggi

Meryl Streep: Florence Foster Jenkins
Hugh Grant: St. Clair Bayfield
Simon Helberg: Cosmé McMoon
Rebecca Ferguson: Kathleen Weatherley
Nina Arianda: Agnes Stark
John Kavanagh: Arturo Toscanini
David Haig: Carlo Edwards
Bríd Brennan: Kitty
Stanley Townsend: Phineas Stark
Allan Corduner: John Totten
Christian McKay: Earl Wilson
David Mills: Augustus Corbin
John Sessions: dott. Hermann
Pat Starr: Gertrude Vanderbilt Whitney
Nat Luurtsema: Tallulah Bankhead
Aida Garifullina: Lily Pons
Mark Arnold: Cole Porter

Uscita al cinema 22 dicembre 2016