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Fontanone Estate. Herlitzka legge Lucrezio ed il dramma dell'anima
Nell’ambito della manifestazione Fontanone Estate, il 1° settembre 2014 il grande attore Roberto Herlitzka si è di nuovo cimentato con la lettura del De rerum natura, il grandioso poema didascalico di matrice filosofica epicurea, che il poeta latino Tito Lucrezio Caro (I sec. a. C.) compose, “negli intervalli della follia” (per intervalla insaniae), secondo la testimonianza di San Gerolamo (poema oggi ritornato anche all’attenzione del grande pubblico, grazie alll'edizione italiana del libro The Swerve di Stephen Greenblatt e alla sua traduzione in prosa con commento scientifico a opera di Piergiorgio Odifreddi).
Nella venue inattesa del Teatro Belli (le condizioni atmosferiche hanno reso impraticabile il tradizionale palcoscenico all’aperto del Gianicolo), Herlitzka, con civetteria e quella dose di falsa modestia che in certe occasioni non guasta, presenta la versione del poema lucreziano come se fosse una ritrovata traduzione trecentesca in terzine dantesche: ma in realtà è lui stesso l’autore di questa traduzione, che ha deciso di interpretare in totale solitudine, mettendo altresì a nudo il suo animo, come Baudelaire aveva detto del suo coeur.
Nel fare questo il grande attore ci mette di fronte a un nesso che aveva già intuito Denis Diderot nel Paradoxe sur le comédien, quello tra attore e traduttore. L’attore fa rivivere il testo quanto più prende le distanze dai sentimenti che deve interpretare; parimenti, il traduttore è tanto più abile nel rendere il testo quanto più lo “tradisce” virtuosamente, perché “dire quasi la stessa cosa”, per usare la felice espressione di Umberto Eco, vuol dire negoziare tra il piano dell’espressione e quello del contenuto di due diverse lingue, operazione che implica necessariamente uno spostamento dei significati originari.
Anche la scelta delle terzine dantesche trova conferma nel giudizio del grande latinista Ettore Paratore, il quale definì Lucrezio: “Il Dante della poesia latina. Come lui egli chiude un'epoca e ne inaugura un'altra (...): non per niente egli è l'interprete di una crisi che segnò a Roma il crollo delle élites e l'avvento di una civiltà di massa”.
Già dai primi versi si nota come la lettura di Herlitzka miri a una sorta di espressionismo: le allitterazioni, i frequenti enjambements, i vocaboli ricercati mirano a far sì che siano gli stessi suoni a parlare e ad essere significanti in sé stessi.
La lettura riguarda in questo caso esclusivamente il terzo libro del poema lucreziano, e in particolare i versi concernenti la morte dell’anima, in cui Lucrezio insiste sulla differenza tra “animo” (animus), traducibile grosso modo come la “mente”, e “anima”, ossia l’essenza vitale, e sulla relazione di quest’ultima con il corpo che la ospita.
Animus e anima sono infatti strettamente connessi non solo tra di loro, ma anche con il corpo, di cui condividono la natura materiale. L’animo ha azione rapidissima ed è composto da atomi minimi, tant’è vero che quando il corpo muore non perde peso (contrariamente al loro predecessore e ispiratore Democrito, Lucrezio ed Epicuro sostengono che il numero di atomi di cui consta l'animo è minore di quelli di cui consta il corpo). Per una combinazione complessa di aria e calore (così complessa che Lucrezio ammette di mancare delle parole per esprimerla adeguatamente: è quella che definisce la patri sermonis egestas, la povertà della lingua materna, che, tuttavia, riesce a flettere mirabilmente fino a non far per nulla rimpiangere il greco di Epicuro) gli atomi trasmettono i sensi al corpo.
L’intento precipuo di Lucrezio è qui quello di utilizzare la mortalità dell'anima come argomento contro il timore della morte: non si tratta di un paradosso, perché il poeta latino insiste sul rapporto tra necessità della morte e necessità del divenire che rinnova la vita. Il desiderio di prolungare la vita individuale viene contrapposto alla necessità della morte, ma è quest’ultima che l’uomo deve accettare per superare la condizione di perenne infelicità e inquietudine, secondo la didascalica epicurea, per cui la durata illimitata della vita non coincide con la perfezione della felicità.
Herlitzka esordisce con i versi 136-144 del poema, che qui riportiamo, a titolo esemplificativo, sia nella sua traduzione, sia nell’originale latino:
Dico d'animo e d'anima or siccome
son fra sé uniti et una fan da sene
sostanza ma quasi capo che dome
l'intero corpo è il pensiero che viene
animo e mente nomato da noi.
Esso la parte a mezzo il petto tiene.
Qui spavento e timor batte, qui gioi
carezza intorno: l'animo e la mente
dunque son qui. La parte sparsa poi
dell'anima per tutto il corpo assente
e move al nome della mente e al nume.
Nunc animum atque animam dico coniuncta teneri
inter se atque unam naturam conficere ex se,
sed caput esse quasi et dominari in corpore toto
consilium, quod nos animum mentemque vocamus.
idque situm media regione in pectoris haeret.
hic exultat enim pavor ac metus, haec loca circum
laetitiae mulcent: hic ergo mens animusquest.
cetera pars animae per totum dissita corpus
paret et ad numen mentis momenque movetur.
Di particolare rilievo anche la lettura dei versi 1014-1023:
Sed metus in vita poenarum pro male factis
est insignibus insignis, scelerisque luella,
carcer et horribilis de saxo iactu’ deorsum,
verbera carnifices robus pix lammina taedae;
quae tamen etsi absunt, at mens sibi conscia factis
praemetuens adhibet stimulos torretque flagellis,
nec videt interea qui terminus esse malorum
possit nec quae sit poemarum denique finis
atque eadem metuit magis haec ne in morte gravescant.
Hic Acherusia fit stultorm denique vita.
Il filosofo Gennaro Sasso li definisce indimenticabili, "per quella cupa capacità di introspezione, che è di Lucrezio e di nessun altro in pari grado, forse, nell'antichità classica, per quella quasi incredibile capacità di far cadere l'inessenziale (sia vanità o mitologia) onde scoprire la radice oscura da cui proviene il male vero dell'uomo".
In conclusione, una lettura di grande effetto e di notevole drammaticità espressiva, che permette la riapproprazione di un classico che non ha mai cessato di parlarci con l’intensità e la radicalità filosofica che lo ha reso allo stesso tempo lodatissimo ed esecrato.