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Gebo e l'ombra. La crisi economica e interiore secondo Manoel de Oliveira
I grandi Maestri sono in grado di irradiare la propria poetica in tutte le produzioni, di qualunque ambito artistico e culturale si tratti.
Una considerazione di apertura che appare quanto mai necessaria per il celebre regista portoghese Manoel de Oliveira, il cui ultimo film – intitolato “Gebo e l'ombra” (Gebo et l'ombre) e presentato nel 2012, fuori concorso, durante la 69° edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia – è stato proiettato in anteprima, rispetto all'imminente uscita ufficiale nelle sale italiane, sulla piattaforma streaming di MyMovies.
La vicenda, ispirata alla pièce teatrale “O Gebo e a Sombra” dello scrittore portoghese Raul Brandão ambientata a Parigi, si svolge interamente in una stanza di una povera abitazione del quartiere popolare: qui si muovono e dialogano i personaggi in scena, interpretati, ancora una volta, dai fedelissimi dei film del cineasta ultracentenario.
La storia ha inizio sotto il segno di quello che sarà il fil rouge dell'intera pièce, la dimensione dell'attesa, che caratterizza i primi personaggi in scena: una donna anziana di nome Doroteia (Claudia Cardinale) e la più giovane Sofia (interpretata da Leonor Silveira), che aspettano il ritorno di Gebo (Michael Lonsdale) dal lavoro.
L'uomo, anch'egli in età avanzata, appare fin dai primi minuti assillato da stringenti preoccupazioni professionali, legate al mestiere di contabile che svolge per una ditta in crisi economica, ma soprattutto a qualcosa di ancor più intimo, una preoccupazione che coinvolge tutta la famiglia e che, si scoprirà dai primissimi dialoghi tra i personaggi, è connessa alla sparizione di Joāo (Ricardo Trêpa), il figlio dell'anziana coppia.
Gebo, mentre la moglie si trova in un'altra stanza, confida sottovoce a Sofia – moglie di Joāo – di averlo visto, o meglio, di aver visto un'ombra che, nelle buie vie cittadine gli ha ricordato suo figlio: in quel momento ha compreso che il ragazzo ha deciso da tempo di vivere ai margini della società, arrangiandosi con espedienti per sopravvivere, perché incapace di continuare a condurre un'esistenza di stenti.
Gebo, dal canto suo, confessa alle due donne di non potersi lamentare della propria condizione, nonostante la povertà che li mette tutti i giorni alla prova: privo di ambizioni, si sente soddisfatto della professione a cui dedica ogni energia della giornata ed anche della realtà semplice e umile che lo circonda, apprezzando le piccole cose quotidiane. Doroteia, invece, afferma con rabbia e risentimento di non sopportare più una vita simile, sempre uguale a se stessa e da cui vorrebbe fuggire, ammettendo di essere sostenuta solo dal ricordo del figlio. Ella vive nella dimensione dell'attesa, confidando nel ritorno di Joāo, che aspetta e che considera positivamente, abbracciata a quelle false speranze sul suo conto alimentate da Gebo, il quale, consapevole del dolore che avrebbe provato la moglie, non le ha mai rivelato la verità sul conto del figlio.
Mentre questi rapporti familiari si esprimono a poco a poco nelle loro piccole sfaccettature e zone d'ombra, il tempo passa, in modo quasi inesorabile, mentre Gebo passa tutta la notte affaccendato sulle sue carte, vicino ad una cartella contenente tutti i guadagni dell'azienda per cui lavora e che dovrà essere riconsegnata, con i relativi bilanci, il giorno successivo.
Il giorno dopo, un temporale passeggero offre l'occasione a due altri personaggi di passare un po' di tempo nell'umile casa di Gebo e Doroteia – dove la notte precedente si era intrufolata quell'ombra che, ormai senza alcun dubbio, risponde al nome del latitante figlio Joāo – per dialogare su moltissimi argomenti.
Chamiço (Luis Miguel Cintra), un uomo con la passione per la musica che si occupa di teatro, e Candidinha (interpretata da Jeanne Moreau), la cui anzianità non le ha tolto un innato brio e un occhio attento, danno avvio a diversi spunti di conversazione, mentre sono seduti al tavolo con Gebo – ancora chino sulle sue carte – e Doroteia, mentre Sofia serve il caffè. Ogni piccola considerazione, come sempre nei film di Oliveira, diventa motivo di riflessione sull'esistenza, sull'arte, ma soprattutto sulla crisi che avvolge tutti loro, mentre Joāo, da un angolo della stanza – diventato “un'ombra” – commenta, quasi non udito, tali problematiche da cui, ormai, si sente lontano.
Quando il cielo si rasserena e i due ospiti lasciano la casa, scende la notte, che, come nella tragedia antica, è preliminare al disvelamento degli eventi dolorosi, ormai già avvenuti e che le premesse della vicenda facevano già presagire.
E ancora una volta, il noto cineasta portoghese, dalla lunga carriera, riesce a trasmettere agli spettatori riflessioni sul presente, sulla cultura e sull'animo degli individui, nelle mille sfaccettature che lo contraddistinguono, attraverso una storia semplice ed essenziale, raccontata con un ampio uso di quei lunghissimi piani-sequenza che gli spettatori oliveiraiani conoscono bene.
L'ambientazione umile appare impostata da un punto di vista teatrale – nel rispetto dell'opera di partenza – ed è illuminata solo da una lampada a olio posta sul tavolo, che crea un sublime effetto pittorico su ciascuna inquadratura, raggiungendo quella delicata raffinatezza stilistica contraddistintiva di tutti i lungometraggi del cineasta portoghese.
Un film che, come molti altri nella filmografia di Oliveira, si contraddistingue per un evidente senso di malinconia – dai tratti, a mio avviso, poetici – che circonda la vicenda e i suoi personaggi, i quali si raccontano li uni agli altri, mentre l'ultima grande riflessione che accompagna il finale riguarda la generale indifferenza nei confronti della sofferenza di moltissime persone nel mondo. “Gebo e l'ombra” è, secondo il mio parere, una nuova piccola perla, che il grande cineasta portoghese ci regala attraverso il suo cinema, in grado di parlare in modo diretto, ma sempre con umiltà e semplicità, del tempo presente, dei suoi problemi e, soprattutto, delle preoccupazioni e delle emozioni del cuore umano.