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Geiger. I pallidi simulacri delle parole
“Spesso cerco una parola, sia un nome sia un luogo, ma non c’è nessuno che mi possa illuminare, spesso quando tento di dire qualcosa – è vergogna confessarlo - mi mancano le parole e ho disimparato a parlare”. Con questa parole, Ovidio nei Tristia (L. III, 14) commenta la sua esperienza dell’esilio nella selvaggia ed inospitale Tomi, un luogo in cui non riesce a riconoscersi, in cui si sente straniero e tutto gli sembra ostile. L’esilio diventa l’immagine che meglio rappresenta, per lo scrittore austriaco Arno Geiger, la malattia dell’Alzheimer, narrata nel libro dal suggestivo titolo “Il vecchio re nel suo esilio”, pubblicato recentemente in Italia da Bompiani.
In questo testo l’autore ripercorre il viaggio compiuto da suo padre August verso la progressiva perdita dei ricordi, della propria identità, di ciò che è stato in passato ma anche di ciò che potrà essere. Nel rappresentarci icasticamente quali devastanti esperienze possa avere una malattia come l’Alzheimer, lo scrittore assimila questa esperienza ad un esilio in terre sconosciute, perché simili sono gli effetti di disorientamento e di sconcerto che ne derivano.
Come un esule, infatti, il protagonista August cerca disperatamente di tornare a casa, perché in nessun luogo riesce a cogliere la sua dimensione naturale. È lo stesso autore a consegnarci il senso di questa metafora, citando lo stesso Ovidio, quando scrive che: ”Nel luogo in cui si è a casa vivono persone che ci sono familiari e che parlano una lingua comprensibile. Quello che Ovidio ha scritto durante l’esilio – che la patria è lì dove si comprende la tua lingua - per mio padre valeva in senso altrettanto esistenziale. Dato che i suoi tentativi di seguire i discorsi fallivano sempre più spesso e che sempre più spesso non riusciva a riconoscere i volti, si sentiva come in esilio”. Come quando in terra straniera, non comprendendo la stessa lingua, i rapporti umani risultano penalizzati, così August, il vecchio re, avverte un profondo senso di estraneità rispetto alle persone che lo circondano, le cui parole gli diventano, ad un tratto, incomprensibili, riducendosi a meri significanti privi di valore semantico. Intanto, casualmente, dei frammenti di un passato ormai lontano, riemergono come pallidi simulacri, chiedendo prepotentemente di essere ricomposti, ma destinati ad errare vorticosamente nel caotico spazio della mente.
Le pagine di Geiger, tuttavia, non restituiscono un senso di angoscia e di inquietudine, come ci si potrebbe attendere, dal momento che si affronta una vicenda biografica, vissuta in prima persona. L’autore, infatti, va oltre i Tristia ovidiani, riuscendo forse egli stesso a dare un senso alla storia di suo padre, a quei vorticosi simulacri del suo passato che attendono solo di essere ricollocati, a tutta l’esperienza della malattia, dalla quale dimostra che si possono trarre anche dei vantaggi. Inaspettatamente, infatti, ciò che in apparenza dovrebbe allontanare le persone diventa occasione per rinsaldare rapporti umani che sembravano persi tra le insondabili strade della vita.
L’Alzheimer costituisce un motivo di dialogo più profondo tra il padre e il figlio, dal momento che quanto più gli iniziali linguaggi differenti impongono sforzi per addentrarsi nel mondo interiore dell’interlocutore, tanto più è possibile per l’autore coglierne la vera essenza. Si recuperano, in tal modo, dei frammenti della vita di August che al figlio fino ad allora erano sfuggiti, giungendo ad un avvicinamento tra due mondi apparentemente distanti. E paradossalmente si raggiunge un’autenticità di sentimento proprio nel momento in cui si è costretti a costruire una realtà di finzione più rassicurante per chi non ha più una percezione razionale del mondo circostante.
La malattia, non più disvalore, si trasforma, pertanto, in una tappa della vita in cui un padre può ancora insegnare qualcosa ai suoi figli, ovvero cosa significhi essere vecchi e malati. E Geiger può ben insegnare qualcosa a noi, su come reagire dinanzi a quello di cui l’Alzheimer, in qualche modo, è simbolo, ovvero la mancanza di certezze nella nostra società: aguzzando la parte più emotiva di noi laddove ogni comprensione razionale risulti parziale.