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Giancarlo Marinelli. La verità frantumata delle penultime labbra
Un’atmosfera inquietante e misteriosa travolge il lettore che si accosta alle pagine di Le penultime labbra di Giancarlo Marinelli, romanzo edito da Bompiani e presentato alla Fandango Incontro di Roma il 24 ottobre scorso. Antonio Branco è scomparso, lasciando come unica traccia una telefonata registrata sulla segreteria della moglie, prima di imbarcarsi su un volo dal Brasile all’Europa.
L’aereo precipita, ma il suo nome, inspiegabilmente, non compare nella lista dei passeggeri. Da questo momento in poi il lettore è trascinato in un turbinio vorticoso di interrogativi senza immediata risposta. Chi è davvero Antonio Branco e cosa gli è accaduto? Cercano di dissipare tali dubbi la moglie di Antonio, Giulia, che decide di andare a casa dei suoceri per fare chiarezza, gli stessi genitori dell’uomo e un amico d’infanzia.
Inizia, pertanto, un‘inchiesta, intesa ariostescamente come ricerca ossessiva, incalzante: un viaggio che ognuno dei personaggi compirà, innanzitutto, dentro di sé per afferrare una verità destinata a frantumarsi di continuo. Un velo, infatti, sembra ammantare la vera realtà dell’esistenza, tanto che nulla e nessuno è come appare, e sotto una fragile coltre superficiale pulsa una dimensione latente che pretende di essere svelata. Si è catapultati in un labirinto fittamente intricato, in un susseguirsi di avvenimenti serrati, che si imprimono profondamente nella mente del lettore per quella loro netta evidenza descrittiva tipica della sceneggiatura. La parola sulla pagina bianca sembra trasformarsi in immagine concreta, proprio come i sogni possono assumere i contorni definiti della realtà, influendo in tutto ciò la formazione stessa di Marinelli, il quale, oltre che scrittore, è regista e autore teatrale.
Nell’indagine che parte intorno alla sorte di Antonio si comprende l’amore dell’autore per i frammenti: ognuna delle persone coinvolte nella ricerca rappresenta una porzione di universo, una briciola di verità, ciascuno possiede solo una parte di Antonio. Ecco, quindi, che la vita dell’uomo viene scandagliata in ogni particolare, in un rinvio continuo tra presente e passato, in una sovrapposizione di luoghi, di voci, di punti di vista, cosicché l’unicità della sua persona si moltiplica in una varietà di forme, in base all’ idea che di lui hanno gli altri. Nel ricordo del marito scomparso o del figlio o dell’amico, in qualche modo, tutti vedono riflesse le contraddizioni delle propria vita e tutti saranno costretti ad affrontarle: in particolare i genitori di Antonio, Giovanna e Francesco, supereranno il muro di incomprensioni che per anni li aveva divisi.
Dalle tante immagini in cui gli altri pretendono di fissarlo, si perviene, quindi, alla scomposizione pirandelliana dell’esistenza di Antonio che si risolve in un esito quasi nichilistico. In tal modo l’autore vuole esprimere la sua drammatica convinzione secondo cui non si conosce poi così a fondo chi si ha accanto: si può amare, senza, tuttavia, afferrare l’altro nella sua essenza più autentica.
Il testo di Marinelli, definito thriller dell’anima, si configura, dunque, come un romanzo sull’assenza, in cui si indaga la forza devastante del dolore che si abbatte su chi sopravvive, su chi continua ad attendere senza rassegnarsi, cercando di carpire almeno un brandello di colui che sfugge e che si perde per sempre. Non è casuale che in tutta l’opera riecheggino versi di Ungaretti, tratti dalla raccolta “Il dolore”, scritta dal poeta dopo la morte del figlio Antonietto. “E t’amo e t’amo ed è un continuo schianto” è il verso che ricorre nel romanzo, rendendo evidenti i sentimenti del padre di Antonio per la scomparsa del figlio. La poesia è usata per comunicare ciò che, invece, rimarrebbe sopito nell’animo del personaggio.
L’altra presenza intorno a cui si snoda il romanzo è il mare con cui Antonio ha un rapporto particolare, emblema della sua stessa ambivalenza, del suo essere scisso in due personalità che faticano ad incontrarsi. Lui, che amava il surf, amava le onde, ripudia questa passione, ritirandosi a vivere in montagna, con sua moglie Giulia, allontanandosi dalla sua famiglia. Nasconde, infatti, alla donna il suo legame con l’acqua, con le onde, rinnegando totalmente ciò che era prima. Antonio, tuttavia, deciderà di ritornare al mare, di riappropriarsi di sé di riconciliarsi con il suo passato, unendolo inscindibilmente al presente. La mer di Debussy, che ascoltano sia il padre di Antonio che un’operatrice dell’aeroporto di San Paolo, con una significativa coincidenza, evidenzia icasticamente l’importanza di quest’ elemento naturale nel romanzo. L’acqua che può presentarsi in mutevoli forme esemplifica, in tal modo, la pluralità dell’essere umano, rappresentando il dinamismo della vita, ma al contempo anche il dileguarsi di ogni slancio vitale.
Ed è proprio questa malinconia evanescente suggerita dall’ immagine del mare a dominare in tutto il romanzo, imponendosi anche nelle ultime pagine, quando il mistero sembra dissolversi, quando tutti gli interrogativi, i dubbi sono chiariti, quando la verità finalmente si svela. Non tutto, infatti, può essere racchiuso in una spiegazione razionale e, proprio nella scena finale, si percepisce il sapore di qualcosa di soprannaturale che trascende l’umana comprensione e che, tuttavia, si pone come arbitro dei nostri destini.