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Grand Budapest Hotel. Il racconto straordinario di Zero
L'ultimo film di Wes Anderson, contraddistinto da un cast che conta alcuni fra i nomi più celebri nel panorama cinematografico odierno (per citarne alcuni Ralph Fiennes, Edward Norton, Adrien Brody, Jude Law, Owen Wilson e Harvey Keitel), si presenta fin dai primi minuti come una commedia divertente e brillante, in cui gli avvenimenti si susseguono l'uno all'altro con un ritmo serrato, mentre accidenti e imprevisti variano senza interruzione l'avvicendarsi degli eventi.
La storia, ispirata alle opere di Stefan Zweig e resa unica da un'ambientazione dai tratti favolistici fino a toccare l'irreale, prende avvio ai nostri giorni, presso il cimitero di Lutz, dove una ragazza visita il monumento celebrativo di un “Autore” non meglio identificato. Su una panchina lì vicino, inizia a leggere un suo libro, riguardante un viaggio compiuto anni prima presso il leggendario Grand Budapest Hotel, situato nell'immaginaria Repubblica di Zubrowka, in zona alpina.
È proprio all'interno di questo racconto che gli spettatori vengono proiettati un attimo dopo.
Nel 1968, infatti, l'Autore (Jude Law) aveva visitato il leggendario albergo e aveva fatto la conoscenza di Zero Moustafa (F. Murray Abraham), l'anziano proprietario, che inizia a narrargli la propria storia, inscindibilmente legata a quella dello stesso hotel, delle sue fortune e sfortune, delle numerose e diversissime persone che lo hanno attraversato.
Zero comincia il racconto a partire dal momento in cui, giovanissimo, aveva fatto il proprio ingresso nell'albergo in qualità di “lobby boy”: erano gli anni '30 e l'edificio era ancora circondato da un'aura di leggenda ed era visitato da moltissimi ospiti provenienti da ogni dove. In quel periodo, la gestione dell'hotel e di qualsiasi minima attività al suo interno era nelle mani di Gustave (interpretato da Ralph Fiennes), un concierge dai modi d'altri tempi, impeccabile e dedito al proprio lavoro, ma con un debole per le donne anziane e rigorosamente facoltose che frequentavano regolarmente il Grand Budapest Hotel. In modo particolare spiccava, fra le numerose ammiratrici di Gustave, la signora Céline Villeneuve Desgoffe und Taxis (Madame D.), che era tanto profondamente legata a lui da aver deciso di lasciargli in eredità il dipinto di maggior valore della propria collezione, “Boy with Apple”.
In seguito, trovata morta Madame D. in circostanze misteriose, al momento della lettura del testamento dell'anziana, risultò chiaro che l'elegante concierge si trovava nella posizione di principale beneficiario dell'eredità, a discapito dei parenti prossimi della signora. Ha inizio da questo momento una serie di rocambolesche avventure che vedono coinvolti da una parte i familiari della donna e dall'altra Gustave e Zero, ormai diventato fedelissimo aiutante del primo.
Viaggi, ricerche e accidenti si susseguono in un turbine di accadimenti dai toni tragicomici – grazie anche a frequenti scambi di battute basati su giochi di parole e ripetizioni intercalari – inseriti in scenari dai contorni ora fiabeschi e irreali, ora posti improvvisamente a contatto con la brutalità di alcuni eventi storici.
Quest'ultimo film di Wes Anderson, premiato alla 64° Edizione del Festival Internazionale del Film di Berlino con l'Orso d'Argento, Gran Premio della Giuria, risulta, a mio avviso, piacevole alla visione sotto tutti i punti di vista: attoriale-recitativo, scenografico e narrativo.
Il lungometraggio, infatti, appare caratterizzato da una struttura narrativa interna molto salda, basata sull'inserimento di una storia dentro un'altra presentata solo in quanto cornice di apertura e di chiusura. Si tratta di uno stratagemma narrativo che, se da un lato rimanda al celebre esempio trecentesco del "Decameron" di Boccaccio, d'altra parte non stupisce che sia stato ispirato consapevolmente dalle prose di Stefan Zweig, noto romanziere e giornalista austriaco, del cui romanzo “Letter From an Unknown Woman” è famosa la trasposizione cinematografica di Max Ophüls del 1948. Anche quest'ultima vicenda, infatti, si basa sull'inserimento di una storia dentro la storia, raccontata da uno dei personaggi principali e quindi mostrata a partire da un certo punto di vista.
Tornando alla vicenda centrale di “Grand Budapest Hotel”, il suo carattere spesso finzionale, porta lo spettatore ad interrogarsi sulla veridicità della narrazione fatta dall'anziano Zero, che ormai vive immerso nei ricordi del passato. Sotto questo aspetto, infatti, tornano alla memoria i fantastici e straordinari (nel vero senso della parola) racconti narrati dal padre gravemente malato al figlio William nel noto “Big Fish” di Tim Burton del 2003. Con le dovute proporzioni, legate soprattutto ai diversi stili dei due registi, non è difficile riconoscere anche in “Grand Budapest Hotel” una riflessione sull'attività del narrare.
Il cinema da più di un secolo è ormai diventato uno dei principali narratori di storie che, soprattutto grazie alle grandi potenzialità del digitale, trasportano gli spettatori in mondi più o meno immaginari e quest'ultimo film di Wes Anderson ne è mirabile dimostrazione.