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The Happy Prince. La Ballata di Rupert Everett per Wilde
In uscita il 12 aprile, The Happy Prince - L'ultimo ritratto di Oscar Wilde, è un progetto che Rupert Everett caldeggiava da dieci anni ma stentava a decollare: ora, con una grande produzione di Maze Pictures, Entre Chien et Loup, Palomar e la distribuzione di Vision Distribution, approda in un film con Rupert Everett regista e attore priotagonista nel ruolo di Oscar Wilde; Emily Watson come la moglie Constance; Colin Firth nella parte dell'amico Reggie Turner; Colin Morgan in quella di Lord Alfred Douglas, o meglio “Bosie”; Edwin Thomas come Robbie Ross.
La pellicola è stata presentata al Sundance Film Festival ed è un ritratto “empatico” di Oscar Wilde nei suoi ultimi e tragici anni di vita: quelli ritratti anche da André Gide nel suo Gli ultimi anni di Oscar Wilde, dandy decaduto (tit. orig. Oscar Wilde, In memoriam, in Prétextes, 1903; trad. ita.: Stefano Lanuzza per Stampa Alternativa). Il colto traduttore Lanuzza ci informa che solo dal 2007 Wilde è entrato “nel novero degli autori anglosassoni degni d'essere adottati dai programmi scolastici del Regno Unito” (Ivi, p.5): non stupiamoci quindi che i titoli di coda del film ci informano che Wilde, condannato per omosessualità nel maggio del 1895, è stato “riabilitato” solo nel 2017. D'altronde, come ci racconta lo stesso Rupert Everett in conferenza stampa alla Casa del Cinema, lui stesso rischiava negli anni '70 (Everett è classe 1959), anche se il reato di omosessualità era stato abolito nel 1968, era piuttosto pericoloso mettere in mostra le proprie scelte sessuali in un ambiente poi, come quello cinematografico, sfacciatamente eterosessuale. Ed Everett infatti dichiara:
“Mi sono sempre riconosciuto in Wilde e, sebbene io non abbia subito quegli eccessi, ho vissuto una situazione simile. Lo scrittore irlandese – spesso ci si dimentica che era nato a Dublino nel 1854 – dall'atteggiamento snob o meglio, dandy, che tutti conosciamo, ha finito per distruggersi con le proprie mani portando in tribunale il Marchese di Queensberry, il padre del suo amante Lord Alfred Douglas, chiamato affettuosamente da Wilde “Bosie”, durante il periodo della Regina Vittoria (1837-1901), una delle epoche più moraliste ed ipocrite che abbia vissuto il Regno Unito.”
Bisogna però anche aggiungere che il Marchese di Queensberry ha molte volte provocato Wilde, addirittura in teatro alla prima della commedia An Ideal Husband (Un marito ideale) il 3 gennaio del 1895, tacciandolo di sodomia col figlio. Wilde, come ben si vede nel film di Everett, è stato sempre schiavo del suo personaggio pubblico, di quella “Art for Art's Sake” che trasformava la sua vita in un'opera d'arte e d'ingegno, quell'essere witty che proponeva Lord Henry Wotton in Dorian Gray, chiari alter ego di Wilde e Bosie nel romanzo più celebre e qualificativo del “metodo” e del credo wildiani.
Rupert Everett però sceglie di mostrare il periodo di débacle di Wilde, gli anni più difficili, evidenziando anche quelle sue parafilie che lo hanno condannato non di per sé stesse (chiaramente diffuse tra i ceti alti che potevano permettersi tutto o quasi, bastava celarlo) piuttosto perchè lui pretendeva di metterle in mostra, di farle sotto gli occhi di tutti, quei tutti che glielo concessero finché non ”osò” sfidarli nella loro ipocrisia e perbenismo. Questo era inammissibile anche per Il Principe Felice di Wilde, The Happy Prince del titolo che, trascorso il suo regno nel piacere e nella completa ignoranza delle brutture e delle sofferenze del mondo, fuso in una statua, dall'alto si accorge di tutto questo e inizia a spogliarsi delle sue gemme, tramite una rondinella che le porta in qua ed in là, una volta dall'orfanella, un'altra al padre di famiglia caduto in disgrazia. Ecco, questo ci vuole dire Everett con la sua maestosa, struggente, commovente interpretazione e scelta di un profilo, quello degli ultimi anni vissuti sotto l'egida ed il nome di Sébastian Melmoth, il faustiano “wandering jew” (stesso profilo mitologico come l'Ancient Mariner di Coleridge o l'Olandese volante wagneriano) stilato dal prozio Charles Robert Maturin nel gigantico romanzo gotico Melmoth the Wanderer (1820 ed. originale; ed. ita. 1842: Melmoth l'Errante, introduzione di Giorgio Manganelli, traduzione di Diana Bonaccosa, Il Pesanervi. I Capolavori della Letteratura Fantastica, Bompiani, Milano, 1968, pp. 476.). Non avremo però nessun prosieguo come sperava Balzac nel suo Melmoth riconciliato (1835, ed. orig.: Melmoth reconcilié), Wilde, dopo i due anni di lavori forzati nel carcere di Reading, di insulti alla sua carne ed al suo spirito, vagabonderà come se fosse già morto, come descrive sé stesso nel De Profundis (lunga lettera postuma a Bosie, 1897) e nella Ballata del carcere di Reading (The Ballad of Reading Goal,1898), tra Francia ed Italia, a volte con la compagnia di Robbie (Edwin Thomas), più spesso con Bosie (Colin Morgan), con cui romperà definitivamente nel 1898.
Quel che consigliamo ai nostri lettori è di leggersi, prima di andare a vedere il film, la favola di Wilde Il Principe Felice, per ritrovare una delle gemme per tutti, adulti e bambini dell'autore: di ascoltare per intero la Patetica di Pëtr Il'ič Čajkovskij che evidenzia le scene più tragiche del film (e l'ipotetico suicidio del compositore proprio qualche anno prima, nel 1893, e per ragioni simili, un amore omosessuale proibito, non è stato scelta a caso), e di riflettere su quale contraddizione riunisce tutti gli uomini “each men kills the thing he loves” (tutti gli uomini uccidono la cosa che amano, dalla Ballata del carcere di Reading): perché Wilde, nonostante tutte le gemme di cui si è spogliato, reagalandole, durante la sua vita all'apice del successo, è stato bistrattato, insultato, deriso, violentato in tutto il suo essere, una volta decaduto per aver “dichiarato la verità”, ovvero, per aver difeso apertamente ciò che amava e voler trasformare quel cuore di piombo del suo Principe Felice in oro, come in un processo alchemico.
Un film questo di Rupert Everett che muove a compassione, per Wilde, per il mondo, così piccolo nella sua pochezza e ristrettezza di vedute che i paesaggi naturali della fotografia di John Conroy carezzano con un inesauribile senso d'infinito, in quella natura che, così diversa dal tessuto orgiastico di alcune scene à la Ken Russell (ricordiamo Salome's Last Dance del 1988), sussurra, nei versi del poeta che: “Scandal is a black dot on the edge of dawn” (Lo scandalo è solo un puntino nero al margine dell'alba, trad. mia).