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Heart of Fire. La gioventù negata. Premiato da Amnesty
"Heart of fire", una storia di polvere, di bambini, di armi, di lacrime amare non abbastanza forti per scendere dagli occhi. Il film è del 2007 - è stato riproposto in queste ultime settimane sulla piattaforma streaming di MyMovies – ed è diretto da Luigi Falorni, un regista italiano che già nel 2005 aveva realizzato un altro documentario dal titolo "La storia del cammello che piange" e che con quest'ultimo lungometraggio mette di nuovo al centro della propria poetica cinematografica uno sguardo attento e consapevole rivolto a luoghi, persone e tradizioni lontane.
Il film, il cui titolo originale è "Feuerher" (Cuore di fuoco) è liberamente ispirato alla biografia della popstar Senait Mehari che, nata da madre etiope e da padre eritreo proprio negli anni del conflitto fra i due popoli, è stata abbandonata da entrambi in tenera età.
La storia che prende forma sullo schermo ha per protagonista una bambina di nome Awet, che dopo aver vissuto anni in un istituto religioso per orfani, viene inaspettatamente riportata nel villaggio dell'Eritrea in cui abitava il padre. La vita insieme a lui, però, non era certo come si aspettava: nessuna attenzione o comportamento gentile, solo duro lavoro fin dalla prima mattina e nessuna possibilità di replica, poichè, come la sorella maggiore – unico punto di riferimento per Awet – era una figlia illegittima e per questo discriminata rispetto agli altri.
Il carattere risoluto e l'insofferenza verso ordini ingiusti che caratterizzano la bambina costeranno care sia a lei che alla sorella: infatti le due vengono portate dal padre presso l'accampamento della Geba, movimento armato per la liberazione e l'indipendenza dell'Eritrea, in cui sono costrette ad arruolarsi. Non si direbbe un luogo adatto a bambini o ragazzi, ma Awet scoprirà dal primo momento che la sua sorte è stata la stessa di moltissimi altri giovani, consegnati da genitori e parenti.
Appena arrivate, le due sorelle vengono subito divise in diversi "reparti": la più grande, in grado di maneggiare le armi, viene destinata ad un addestramento militare di base, mentre la più piccola è costretta ad entrare a far parte di un gruppo di bambini più o meno della sua età che veniva educato con insegnamenti relativi alla storia e alla geografia dell'Eritrea.
Anche in questa nuova situazione, però, nonostante si affezioni al suo maestro, che non metteva la lotta armata al primo posto, sperimenta di nuovo la sofferenza delle discriminazioni, fin dalla possibilità di ricevere i pasti caldi giornalieri, destinati principalmente ai combattenti armati del gruppo, i quali, però, ad ogni uscita, non avevano mai la certezza di ritornare.
Lo spettatore osserva da vicino la situazione di Awet, guardando gli eventi con i suoi occhi, sentendo le sensazioni contrastanti e il dolore silenzioso che la affliggevano, così tanto poichè ella si era convinta – dopo aver ascoltato la favola dell'asino e del leone, raccontata ai bambini dal maestro – che quella condizione era per lei una sorta di "punizione" per le colpe del padre.
La storia di questa bambina narrata nel film vuole essere, oltre che un esplicito riferimento alla biografia di Mehari da cui è tratta, soprattutto una riflessione sulla realtà amara dei bambini-soldato, una realtà tutt'ora riguardante la vita di milioni di giovani. Così ha infatti dichiarato il regista Falorni, in occasione della presentazione del film in concorso alla 58° edizione del Festival di Berlino, durante il quale erano sorte molte polemiche su questo lungometraggio da parte di ex combattenti dei movimenti di liberazione, che dichiararono falsa la realtà che vi viene mostrata.
L'impegno sociale del delicato tema trattato da Falorni è stato premiato in occasione della 38° edizione del Giffoni Film Festival, durante il quale gli è stato riconosciuto il "Premio Amnesty", conferito dalla sezione italiana di Amnesty International, come lungometraggio che meglio ha saputo rappresentare i temi legati alla difesa dei diritti umani.
In un'ambientazione caratterizzata da distese aride e desertiche, con alcuni tratti rocciosi che sembrano sfiorare il cielo striato di rosso, la storia di Awet, che dopo molte sofferenze – grazie al suo coraggio – riesce a scappare con la sorella e un altro bambino verso il Sudan, rappresenta un messaggio di speranza per un destino diverso per i milioni di bambini-soldato in tutto il mondo.
La disperata fuga, lenta e debilitante, di questi giovanissimi alla fine del film sembra ricordare lontanamente l'interminabile corsa finale di Antoine Doinel, il bambino protagonista del celebre lungometraggio di Truffaut, "I quattrocento colpi" (1959), emblema del cinema moderno, carica di speranze e desiderio di libertà.