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IUC. Zampillii e lacerti di note per Romanovsky, Boldoczki e gli archi della Liszt
Lo scorso sabato, 18 gennaio 2014, alla IUC due solisti di gran talento: l'ucraino Alexander Romanovsky al pianoforte ed il trombettista ungherese Gabor Boldoczki con la Franz Liszt Chamber Orchestra, ed in programma il celebre Concerto in re di Igor Stravinskij; il Concerto in do minore per pianoforte, tromba e orchestra d’archi di Dmitrij Šostakoviĉ. Di Benjamin Britten le Variazioni per intero su un tema di Frank Bridge e la Rapsodia ungherese n. 2 di Franz Liszt, che come autore in questo caso non poteva di certo mancare.
L'attacco puntuale e veloce degli archi della Franz Liszt Chamber Orchestra apre allo sperticato e neoclassico Concerto in re per orchestra d’archi n. 25 del 1946, su tre movimenti: Vivace; Arioso. Andantino e Rondò. Allegro, che lavora sui semitoni, sulle parade barocche parodizzate a mo' di scherzo, una sorta di Concerto grosso che vuole nascere ed invece occhieggia dalla tiepida placenta quasi per farci l'occhiolino di sbieco, un trompe l'œil che ci mostra a tratti un giardino pensile, ad altri sincopate ombre sul pavimento. Un concerto oltremodo pieno di una carica che sembra quasi diffondere un alone di energheia cosmica, proveniente da stelle che appaiono e scompaiono. Illuminano punti oscuri con deboli luci di lanterna mentre la rispondenza tra archi acuti e gravi compone una raffinata tessitura, tendendo la tela fino a provocare dei lacerti.
La tromba ungherese di Gabor Boldoczki vivacizza un oltremodo acceleratissimo Concerto in do minore per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35 di Dmitrij Šostakoviĉ, con al piano l'ucraino, naturalizzato italiano, Alexander Romanovsky (classe 1984, allievo di Leonid Margarius, allievo a sua volta della sorella di Horowitz, Regina), che svetta per una rapidità travolgente e cristallina. L'Orchestra Liszt, con cui è in tour Romanovsky, è sincronizzata sui tempi della tastiera in cui il pianista è superlativo: le note “zampillano” letteralmente, come sassolini che vergano l'acqua di asperità e citazioni colte (l'Appassionata ed il Rondò a capriccio di Beethoven), inusitatamente in quattro movimenti: Allegretto; Lento; Moderato; Allegro con brio. La venatura scherzosa del quotare dai riflessi barocchi però non toglie che le malinconiche viole dirimano un filo lancinante e quasi metafisico, che al piano divarica la sua densità struggente risollevandosi solo sulle note della tromba. La mestizia è lì, incombente, e, se non fosse per quella scrittura ramata di intercapedini che lascia glissare gli archi insieme alle note calde del piano, sarebbe impossibile dissimulare un compendio della musica dal '600 al Novecento in una brevità così prolifica e di luce adamantina. Il bis di Romanovsky insieme alla Liszt Orchestra e a Boldoczki è in tono: il Valzer dalla seconda raccolta di Jazz Suites (1938) di Šostakoviĉ in cui spicca il contrabbasso di Bence Dániel Horváth.
Britten ha scritto nel 1937 le Variazioni su un tema di Frank Bridge op. 10 (dieci variazioni con un'introduzione con il tema: Variation 1: Adagio; Variation 2: March; Variation 3: Romance; Variation 4: Aria Italiana; Variation 5: Bourrée classique; Variation 6: Wiener Waltzer; Variation 7: Moto perpetuo; Variation 8: Funeral March; Variation 9: Chant; Variation 10: Fugue and Finale): è l'opera commissionata dal direttore Boyd Neel che la presentò al Festival di Salisburgo per la prima volta con la sua orchestra, portando Britten ad una rilevanza internazionale. Tributo di Britten al suo maestro Frank Bridge, il dedalo di variazioni compone il carattere del Maestro traslato attraverso gli occhi dell'allievo: gli archi ungheresi dell'Orchestra ospite conferiscono una trama orientale e nostalgica dall'inizio, traducendo anche i rilievi seicenteschi in una coloratura moderna. Le cifre stilistiche della tradizione vengono stravolte in inquiete citazioni da Stravinskij (la Bourrée classique) fino a Fazil Say nel Moto Perpetuo (mi fa pensare al Perpetuum mobile della sua Violin sonata n.7). La struggente Funeral March fa glissare gli archi in toni lugubri che solo il sommesso pianissimo del Chant, intervallato da pizzicati, ridesta dal profondo languire dai toni sinfonici che silenzia qualsiasi nostro torpore, cullandoci nella fuga terminale dal tono dialettico e sapienzale.
L'omaggio al magiaro è doveroso: tanto tardi si avvicinò Franz Liszt ai suoni della sua terra, tra 1846 e 1885 compose tutte le diciannove rapsodie ungheresi che esaltano gitanamente e ostinatamente con ritmo crescente come in questa seconda Rapsodia, che si fa brillare come un ordigno di suoni catartici per flettersi liricamente in perle di inappuntabile bellezza. Il contrabbasso di Horváth ancora si fa notare, ed incrollabile l'orchestra ungherese trascina con vigorìa il peregrinare delle note, facendoci costatare come l'Orchestra di Budapest col nome di Liszt fondata nel 1963 ed ora diretta con piglio sicuro dal primo violino Péter Tfirst, possa aver collaborato, in non meno di duecento incisioni, con Rostropovich, Isaac Stern e Jean-Pierre Rampal, tre nomi che danno il la a tutti gli altri. L'ultima nota ce l'hanno regalata con il bis della Danza ungherese n. 4 di Brahms, trascinandoci in un vortice intervallato da liricità esplosive nel pathos.