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Jung e il cinema. Quando gli archetipi incontrano l'anima dei film
La casa editrice Mimesis ha appena mandato in stampa il volume Jung e il cinema, una raccolta di saggi a cura Christopher Hauke e Ian Alister, che si distingue dalla consueta critica cinematografica perché estende il suo raggio d'azione a territori ancora inesplorati da altri testi dedicati alle analisi dei film. Molti degli autori hanno ampliato la loro concezione del film e del cinema fino a includere temi che sono implicitamente o esplicitamente relativi alla trasformazione e a quella che potremmo chiamare lato sensu l'«alchimia» dei nostri processi consci e inconsci.
Il presupposto di fondo da cui muovono gli autori del libro è quello per cui il cinema è un eccellente banco di prova per testare il modo in cui la nostra personalità e i nostri stati psichici sono sottoposti a trasformazioni che richiamano i processi alchemici. L'idea fondamentale è che tali trasformazioni possono avere luogo solo laddove esista una proiezione con cui relazionarsi, e che sia tale da richiedere uno schermo molto più grande di quello che la maggior parte di noi può generare nella sua vita individuale. Lo stesso Jung si rese conto di questo fenomeno.
"La psiche è soltanto in parte identica al nostro essere empiricamente coscienti; per il resto essa si trova in stato proiettato, e in tale stato essa immagina o raffigura le cose più grandi (maiora) che il corpo non può afferrare, ossia tradurre nella realtà. Queste maiora corrispondono alle altiora dell’immaginazione di Dio creatrice del mondo, le quali però, proprio perché immaginate da Dio, diventano subito sostanziali e non permangono in uno stato di realtà potenziale come i contenuti dell’inconscio". (Carl Gustav Jung, Opere. Psicologia e alchimia, Torino, Boringhieri, 1980 12, p. 276).
Nella ricca e articolata Introduzione (pp. 17-32), i curatori osservano che, contrariamente agli scritti di Jung, Dio in questo libro non è citato frequentissimamente: al suo posto, subentra un ampio spettro di manifestazioni e proiezioni culturali. Ma niente ci impedisce di pensare al regista come a un “Dio con un’immensa immaginazione”, come a colui che ci consente di proiettare le nostre debolezze in previsione di una trasformazione e di una crescita. L'uso di simili metafore sottolinea l'importanza del cinema come mezzo dotato di una capacità tecnica ineguagliabile nello stimolare quell’immaginazione che ha il potere di far apparire molte persone come creature simili a Dio o a uno degli dèi.
Lo stesso Jung – osservano i curatori –, pur non frequentando molto i locali dei cinematografi, rimase impressionato da quello che il nuovo mezzo di comunicazione di massa offriva in termini d’immaginario, andamento narrativo e dinamica – sia dal punto di vista fotografico sia dal punto di vista dei processi umani rappresentati. Vi vedeva quasi un antidoto all’era dominata dal materialismo, nella quale ancora si presta scarsa attenzione alle dinamiche inconsce, alle immagini e ai sogni: il cinema offre uno strumento e uno spazio per essere testimoni della "psiche proiettata", quasi letteralmente.
Le pellicole cinematografiche diffondono un’esperienza del "contemporaneo" collocata altrove rispetto alla “vita quotidiana”: tale esperienza viene vissuta collettivamente con altri in uno spazio buio dedicato a tale obiettivo. Quest’esperienza di psiche proiettata va più in là, e lo fa in modo diverso da quella offerta dal teatro, grazie alla flessibilità coinvolta nel mezzo fotografico, soprattutto quando vengono impiegate immagini digitali. Il cinema ha la possibilità di diventare uno spazio popolato d’immagini mentali – una sorta di recinto sacro [il greco témenos, τέμενος] –, e occuparsi di film stimola un tipo d’immaginazione attiva che può di conseguenza impegnare l’inconscio potenzialmente con successo, come accade per la nostra attenzione cosciente.
Un'altra caratteristica notevole del presente libro risiede nel tentativo di considerare il pensiero junghiano come parte di un’interpretazione post-moderna della società occidentale contemporanea, che vada al di là del punto di vista illuministico e della sua tendenza a privilegiare pochi argomenti e a gerarchizzare le differenti “verità”, sostituendo ad esso il prospettivismo e il pluralismo tipico di Jung (e prima di lui di Nietzsche). Così il cinema – ossia il mezzo composto da immagini fotografiche che scandiscono apparentemente i momenti “di facciata” tipici della post-modernità – diventa, nell’ottica post-junghiana, proprio il mezzo che è in grado di riportarci nel profondo della psiche individuale post-moderna, mettendo fianco a fianco una reazione individuale e un’esperienza condivisa in comune.
I differenti saggi che compongono la silloge sono strutturati secondo diversi approcci, benché si rifacciano tutti all’analisi junghiana. Alcuni capitoli affrontano il contenuto e la forma del film secondo le linee della teoria psicologica junghiana, mettendo a frutto concetti come quello di inconscio collettivo o di d’individuazione; molto presente è anche un "archetipo diviso", ossia l’Anima e l’Animus. Tra le tematiche maggiormente analizzate, meritano una menzione quelle che ruotano intorno al concetto di "genere" (nel senso dell'inglese gender) e al progresso tecnico e scientifico.
Il libro è organizzato in modo tale che coloro che non hanno familiarità con le teorie junghiane possano partire dai tre capitoli iniziali. Il primo capitolo, “Jung/segno/simbolo/film”, è dovuto a Don Fredericksen, il quale analizza l'antitesi tra un approccio semiotico di tipo quasi freudiano e la prospettiva simbolica junghiana come strumento per l’interpretazione della psiche, attraverso la nozione di "percezione del potere delle immagini" nei film.
Nel saggio successivo, Lydia Lennihan analizza in modo molto originale l’immaginario di Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Il concetto junghiano qui messo a frutto è quello di “Individuazione psicologica”, connesso con le sue ricerche di storia dell'alchimia. L’immaginario alchemico di Pulp Fiction viene collegato con le distinte "individuazioni" dei vari protagonisti a mano a mano che si svolge la storia del film, con alcuni personaggi che crescono in saggezza mentre altri rifuggono da una maggiore conoscenza di sé stessi: ad es, la misteriosa luce dorata che proviene dalla valigetta è un preciso esempio del simbolo della Numinosità.
Non possiamo qui soffermarci su tutti i saggi inclusi nel volume e sulle molteplici interpretazioni cinematografiche che vi sono contenute. Ci limitiamo solo a un paio di saggi particolarmente significativi. Il capitolo di Don Williams sul film Blade Runner di Ridley Scott (pp. 139-160) parte dalla tesi, esposta da Jung in numerosi suoi scritti, secondo la quale la nostra coscienza enormemente differenziata rischia di portare gli uomini a inventare tecnologie in grado di superare e rendere marginali aspetti della nostra umanità di cui difficilmente possiamo fare a meno: molte patologie sociali derivano, per lo psicologo svizzero, dalla nostra incapacità di raggiungere un equilibrio tra la razionalità cosciente e sofisticata e altri aspetti della psiche, come quello spirituale, storico, della comunità e della fantasia. Per Williams la tematica del film risiede proprio nella «ricerca per stabilire con noi stessi che cosa significhi essere umani» (p. 140). E il saggio si focalizza sull’unione della coppia nel film, lui un maschio umano e lei una donna non-umana, una "replicante" che è il prodotto dell’ingegnosità tecnologica degli uomini.
In Blade Runner, Williams ha l’opportunità di esplorare inoltre il tema junghiano dello hierosgamos – il “sacro matrimonio” – che è un modo di rappresentare l’integrazione del conscio e dell’inconscio attraverso l’analogia con le linee del genere, come nel simbolismo alchemico. Williams affronta poi diversi temi come le caratteristiche post-moderne della narrazione, la presenza e l’assenza di empatia, il sistema classista e il capitalismo – collegando tutto questo all’analisi junghiana della psiche contemporanea e delle sue pecche. . Sebbene gli umani possano avere la tendenza all’“iper-estensione” di tali qualità – tecnologia e potere –, in Blade Runner egli trova anche l’“iper-estensione” dell’amore e della coscienza in una direzione più soddisfacente e creativa poiché «con la coscienza – che Jung chiamava la seconda cosmogonia – possiamo anche avvicinarci a un futuro che sia il migliore che possiamo immaginare e pensare» (p. 152). Blade Runner inoltre presenta la concezione per cui la tecnologia è in nostro possesso e dipende da noi umani limitare le nostre ambizioni in merito. Nel film questo tema viene espresso dalla relazione tra Deckard (Harrison Ford) e Rachael (Sean Young) e dal trionfo dell’amore sul potere.
L'altro contributo su cui ci soffermeremo brevemente è quello che John Izod dedica a uno dei film più famosi tra quelli che affrontano il futuro prossimo, la tecnologia e la collocazione del genere umano in questo contesto, ossia 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Izod puntualizza che l’uomo e Dio – o l’Io e il Sé – sono in una relazione d’interdipendenza reciproca. Egli vede il Dio della Risposta a Giobbe di Jung alla stregua di una forza potente e determinata, non onnipotente e onnisciente, ma piuttosto da intendersi come una “coscienza” non sofisticata e primitiva per la quale aree essenziali della psiche sono anche “proiettate”, e che ha bisogno ancor di più di una relazione di interdipendenza, in quanto è l’Uomo stesso con l’umanità stessa.
Gli opposti sono un tema centrale in 2001, spesso resi sottilmente attraverso il motivo della vastità e della lentezza dello spazio in rapporto all’ambizione smisurata dell’uomo, e attraverso la musica del cosmo in contrasto con il blando discorso degli umani (musica del cosmo scandita poi dalla musica "umana", di Strauss e Ligeti). Un altro filo conduttore nel film di Kubrick ruota intorno a che cosa possiamo e che cosa non possiamo “sopportare di vedere”. Il computer HAL (interessante che le lettere dell’alfabeto siano quelle precedenti alle lettere IBM nell’ordine alfabetico) con il suo unico occhio rappresenta una parte primitiva della psiche, vinta dall’umanità dell’astronauta Dave Bowman che ha una visione binoculare degli eventi. A mano a mano che Bowman attraversa lo spazio, vediamo che i suoi occhi ricevono lo stimolo radicale del viaggio. Tematica che ritorna in molti film di Kubrick: ad esempio in Arancia meccanica (A Clockwork Orange) Alex è costretto a “vedere”, con delle pinze che impediscono ai suoi occhi di chiudersi involontariamente. E nel suo ultimo film, Eyes Wide Shut, Kubrick descrive i pericoli di ciò che vogliamo vedere – e di ciò che non vogliamo vedere – come pure l’impulso contrario all’immaginazione creativa suggerita nel titolo.