Kreuzweg. La Via Crucis dei lefebvriani

Articolo di: 
Sandra Palombelli
Kreuzweg

Orso d'Argento per la Migliore Sceneggiatura alla 64° Berlinale di quest'anno, Kreuzweg. Le stazioni della fede di Dietrich Brüggemann si inscrive in una ricerca che negli anni è diventata un filone, di nicchia certo, ma costante e capace di fidelizzare un certo pubblico che riflette sulla necessità sempre più urgente di valori nella società di oggi che, scavalcati per fortuna i dogmi imposti dalla religione o dall'etica tradizionale, ci ha lasciati orfani di un solido progetto educativo, in grado di rispondere a chi, scalfita la superficie delle cose, si domanda che cos'altro ci sia che possa spiegare il senso dell'esistenza in maniera convincente. Legittima domanda.

Le risposte non sono sempre all'altezza. Difficile stabilirlo, quando la posta in gioco è alta e lo sforzo è notevole, etico ed estetico.

È il caso, a me pare di questo film, che si presenta come un esercizio DOGMA, un esercizio spirituale, potrebbe incalzare ironicamente qualcuno. Il DOGMA 95, nato con tanto di manifesto ufficiale dalla mente di un furbacchione come Lars Von Trier e terminato altrettanto teatralmente dieci anni dopo, si proponeva di purificare il cinema da tutte le sue forme di maquillage e accessori che ne sporcherebbero l'essenza profonda, come luci, musiche, teatri di posa e scenografie artificiose. Lo stesso Von Trier, nel primo film dopo la stipula del manifesto, Le onde del destino, che lo impose massicciamente al pubblico internazionale, tradiva immediatamente le regole da lui stesso concepite con un uso, bisogna dirlo, magistrale di musiche, costumi e scene, armonizzate da un “leccatissimo realismo”. 

Perché ci dilunghiamo su un'esperienza breve e ormai dimenticata per parlare di un film che esce adesso, il 29 ottobre, sui nostri schermi? Perché ogni epoca complessa produce gli anticorpi alle sue stesse patologie. La nostra epoca, che non ha ancora smesso di complicarsi, si manifesta in modo chiaro proprio negli ultimi due decenni del secolo scorso e le voragini che ha scoperchiato sono ancora ben lungi dall'essere colmate. Oggi, come trent'anni fa, parlare di fame mistica, di estremismi religiosi è di straziante attualità.

Il corpo immolato di questa Via Crucis (traduzione latino-italiana del titolo) è quello di Maria, la giovane Lea van Acken, vittima di un'educazione cattolica cosiddetta tradizionale. La sua famiglia e la parrocchia di appartenenza sono seguaci della Fraternità di San Paolo, nome d'invenzione della reale Fraternità di San Pio X, fondata da Monsignor Marcel Lefebvre e che auspica il ritorno al cattolicesimotradizionalepreconciliare e antiecumenico, riconosciuta dalla Chiesa nel 1970, ma in un secondo momento contrastata da alcune personalità della gerarchia ecclesiastica e da alcuni ritenuta eretica, poi discretamente riammessa al consesso vaticano da papa Benedetto XVI (che ha revocato le scomuniche irrogate da Giovanni Paolo II ai quattro vescovi lefebvriani, anche se la Fraternità manca tuttora di una regolarizzazione canonica), nell'ottica di una riconciliazione interna.

Il regista e sua sorella, con la quale ha scritto il film, hanno avuto contatti con la Fraternità per vicende familiari; a partire dall'esperienza personale egli intende, tuttavia, riflettere sugli estremismi religiosi in senso più lato.

L'aspetto più interessante e sovversivo del film è la scelta di una ragazza come protagonista: Maria incarna Gesù e la Madonna al tempo stesso; la quintessenza del martirio della madre e del figlio condensato in una sola persona attualizza l'idea di una fede basata non sulla ricerca della felicità e della realizzazione di sé, ma sulla rinuncia. Il sacrificio di Maria, infatti, consiste nell'offrire la sua stessa vita perché il fratellino guarisca.

Maria è un'adolescente che si sta preparando a ricevere la Cresima; a scuola conosce Christian, anche lui cattolico, ma di quelli “moderni”, che le propone di cantare nel coro della sua parrocchia un repertorio gospel e soul, musica ritenuta satanica dalla comunità della ragazza. Il personaggio più repressivo e che esercita la maggiore influenza su di lei è la madre, che fino all'ultimo negherà ottusamente la gravità del proprio atteggiamento.

Il racconto si dipana in quattordici capitoli che hanno il titolo delle stazioni della Via Crucis; manca la quindicesima, quella in cui Cristo risorge. L'ultima sequenza, con l'unico movimento di macchina di un film costruito su quadri fissi in piano sequenza, ci mostra la sepoltura di Maria, alla presenza di Christian, unico amico che le reca un fiore, e una gru che sposta la terra per riempire la buca; la macchina da presa lentamente fa una panoramica verticale, compie una lieve rotazione e torna verticale fino ad inquadrare le nuvole, a lasciarci sperare nella possibilità della Resurrezione, la quindicesima e ultima stazione del rito cattolico che nel film non è menzionata.

Il tutto è rappresentato con un rigore formale e una severità così irreprensibili da indurre a domandarci se non vi sia una contraddizione nell'opporsi ad un'educazione religiosa severa fino alla crudeltà, utilizzando un linguaggio che non lascia spazio ad alcuna distrazione, dove tutto è sotto controllo e costruito ad arte. Il determinismo, che conduce il racconto verso la superflua dimostrazione di una tesi chiara fin dall'inizio, inficia le buone intenzioni dei film come questo e lascia un senso di insoddisfazione per quell'occasione mancata di esplorare senza preconcetti la questione del dubbio e della vulnerabilità umana.

Di contro all'estrema essenzialità del linguaggio, la storia suscita emozioni potenti e una totale empatia con la protagonista, sfidando la resistenza dello spettatore più lucido e incorruttibile. Del resto, come si fa a non essere d'accordo, a non prendere le parti di una così dolce e nobile creatura? Lo schematismo che ci consegna una madre cattiva, un padre indeciso, un prete severo, dei compagni bulli appare come un'ingenuità che indebolisce l'intenzione del film e rende ingiustificata, tutto sommato, “la spesa” di così tanta emozione. Un'opera di puro intrattenimento non ha bisogno di giustificarsi se fa piangere, ridere, arrabbiare; da un film così ti aspetti una riflessione più convincente, che intercetti le tue domande, che ti induca a mettere in discussione le tue certezze.

È questo che è sembrato terribilmente simile al film di Von Trier menzionato sopra, quell'accanimento crudele che ha il sapore di una estrema spettacolarizzazione del dolore.

Si può amare Dio e la musica pop? Questa è la frase che campeggia sulla locandina italiana, con caratteri rossi simili alle scritte fatte a mano sui muri o sui diari dei ragazzi; l'immagine quasi priva di contrasto, dove lo sfondo totalmente bianco sconfina sul candore della pelle, lasciando emergere solo gli occhi rivolti al cielo, i capelli lunghi e la corona di spine intorno al capo non sarà un'inquietante strizzatina d'occhio?

Pubblicato in: 
GN46 Anno VII 29 ottobre 2015
Scheda
Titolo completo: 

Kreuzweg. Le stazioni della fede
Titolo originale Kreuzweg
Lingue originali tedesco, latino, francese
Paesi di produzione Germania, Francia
Anno    2014
Durata    107 minuti
Genere    drammatico
Regia    Dietrich Brüggemann
Sceneggiatura Anna Brüggemann, Dietrich Brüggemann
Distribuzione in Italia Satine Film

Interpreti e personaggi
Lea Van Acken - Maria
Florian Stetter - Padre Weber
Franziska Weisz - Madre
Ramin Yazdani- Medico
Lucie Aron - Bernadette
Moritz Knapp - Christian
Hanns Zischler - Impresario pompe funebri
Birge Schade - Insegnante ginnastica

64° Festival di Berlino - Orso d'argento per la Migliore Sceneggiatura

Uscita al cinema 29 ottobre 2015