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The legend of Tarzan. Ritorno al Paradiso terrestre
Il grande tema – di orgine veterotestamentaria – dell'uscita dal Paradiso Terrestre (che in greco significa giardino), dell'abbandono di una immemore e spensierata fratellanza con il creato, è uno di quei miti antropologici fondativi della civiltà: lo ritroviamo in tutte le epoche, sempre riofferto dalla personale rielaborazione degli artisti e dei filosofi, e ad esso si aggiunge un film appena uscito: The Legend of Tarzan, diretto da David Yates (noto al grande pubblico per aver diretto – splendidamente – gli ultimi quattro film della saga di Harry Potter) con Alexander Skarsgàrd nel ruolo del protagonista.
Non sorprende dunque – data la pervasività di questo tema collaudato da una meditazione plurisecolare, se qualcosa filtra anche nella cosiddetta letteratura di consumo, o meglio di intrattenimento, che, pur percorrendo un'altra strada rispetto a quella relativa alle grandi inchieste culturali, rielabora – magari implicitamente – stilemi della filosofia e dell'antropologia (sull'argomento è inevitabile rimandare ai pionieristici studi del compianto Umberto Eco, soprattutto in Apocalittici e integrati, del 1964. N.d.R.).
Non è il caso di ammassare fonti certe o probabili, ma non sarà fuori luogo riconoscere nella controluce di una storia che racconta l'avventura di un uomo cresciuto nella giungla africana, i grandi archetipi di Rousseau (Il mito del buon selvaggio) e di quei filosofi che hanno riflettuto sulla possibilità di ripristinare un rapporto primigenio con la natura, che scavalchi lo strappo dell'esilio degli uomini dalla patria deliciarum sancito da Dio.
La storia di Tarzan fu concepita all'inizio del Novecento dallo scrittore statunitense Edgar Rice Burroughs, che compose una serie cospicua di romanzi dedicati alla storia di un bambino selvaggio cresciuto dalle scimmie nella giungla. Questo puer selvaticus un giorno decide di abbandonare la giungla per conoscere la civiltà, dalla quale sarà profondamente deluso, e deciderà così di tornare indietro (In filigrana riconosciamo il sogno di tornare nel Paradiso terrestre, che è a sua volta debitore del più profondo desiderio regressivo che agita l'inconscio degli uomini: tornare nel luogo immune dal male di vivere: il grembo materno).
Questi romanzi incontrarono un larghissimo successo di pubblico e diedero vita a delle trasposizioni cinematografiche più o meno riuscite, che rappresentano ad ogni modo un rigoglioso filone narrativo, al quale si aggiunge il film diretto da David Yates.
Il film apre allo sguardo un Tarzan imborghesito, che ha lasciato da parecchi anni la giungla africana e ha assunto il nome di John Clayton III, Lord Greystoke, accanto all'amata moglie, Jane. Adesso è stato invitato a tornare in Congo, in veste di emissario di commercio per il Parlamento, ignaro di essere la pedina di una trama mortale ordita da un belga, il capitano Leon Rom.
Nel ritorno alle sue meravigliose foreste (meritano una menzione il direttore della fotografia Henry Braham, lo scenografo premio Oscar Stuart Craig e la costumista candidata all'Oscar Ruth Myers), Tarzan ha al suo fianco George Washington Williams (interpretato da Samuel L. Jackson) a fianco del quale combatte contro la violenta oppressione colonialista e schiavista fomentata dall'infido braccio destro di Leopoldo II del Belgio, Leon Romm, il quale vorrebbe ridurre in schiavitù tutta la popolazione locale e impadronirsi delle miniere di diamanti.
Il racconto di quest'avventura incrocia i grandi temi del genere: l'avidità di denaro, l'inganno e il tradimento, la natura fascinosa e minacciosa, che offre un'ospitalità difficile. Da segnalare la fauna ricchissima. Compare infatti una vasta gamma di magnifiche creature (coccodrilli, zebre, elefanti, leoni, scimpanzè, etc), ma per le riprese del film non è stato usato nessun vero animale, rendendo ancora più arduo il lavoro per i team degli effetti visivi.
Uno dei doni più belli e stupefacenti di Tarzan è quello di saper comunicare con tutti gli animali: è il segno di una perfetta armonia con il creato, di una capacità di ascoltare la vita in tutte le sue forme; è un privilegio che l'umanità, in un momento imprecisabile della propria storia – non si sa bene per quale motivo – ha smarrito per sempre.