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Lion. In cerca di Sheru
È nelle sale Lion, per la regia di Garth Davis, con Dev Patel e Nicole Kidman. Fanno parte del cast anche star indiane di prim’ordine, come Nawazuddin Siddiqui (personaggio equivoco di Kolkata), Priyanka Bose (la madre naturale di Saroo), Tannishtha Chatterjee (donna di Kolkata) e Deepti Naval (la severa selezionatrice dell’orfanotrofio). Le case di produzione sono See-Saw Films, Aquarius Films, Screen Australia, Sunstar Entertainment, The Weinstein Company.
Diciamo subito che questa pellicola si è candidata a una serie di Academy Awards; per essere chiari, a premi Oscar quali “miglior film”, “miglior attore non protagonista” (Dev Patel), “miglior attrice non protagonista” (Nicole Kidman), “migliore sceneggiatura non originale” (Luke Davies), “miglior fotografia” (Greig Fraser), “miglior colonna sonora” (Dustin O'Halloran e Hauschka).
Diciamo anche subito che fa omaggio ai buoni sentimenti e che è una pellicola decisamente commovente. Ciò detto, è davvero un buon film.
È uno sguardo di bambino quello che ci s’offre. Non di quelli alla Ozu, per intenderci il grande maestro di Viaggio a Tokyo (Tokyo Monogatari, letter. Una storia di Tokyo), con la macchina da presa proprio collocata ad altezza di bambino, no. È lo sguardo, anzi no, il vivere di un bambino, in tutta la sua fragilità, quello che ci viene mostrato. Una fragilità eccessiva nell’inferno urbano dell’India. Avete presenti quegli esserini troppo fragili per essere tosti al punto giusto da poter vivere in un inferno? Non sono forse le forme di vita più delicate? Forse le più belle? Un poeta è adatto all’altoforno? Si può dire che sia inadatto? Si può dire che abbia rinunciato alla sopraffazione. Forse. Ecco, questo bambino non ha rinunciato all’amore che lo ha cullato e preso in braccio e coccolato e baciato: quell’amore è la guida di questo piccolo, tenero e fragile tra le farfalle così come all’inferno. E il piccolo ce la farà.
Sheru, anzi, no, Saroo, perché è così che un bambino di appena cinque anni crede di chiamarsi, vive nel distretto di Khandwa, nell’India continentale nord-occidentale, lontano 1600 km da Kolkata (per chi non lo sapesse è così che ora si chiama Calcutta), dove si parla bengalese (e hindi). La cartina dell’India (la geografica così come la linguistica) non lascia spazio a dubbi. Già, perché l’India è davvero un subcontinente, dove si parlano lingue tra loro simili, come quelle indoeuropee – simili in qualche modo anche a quelle parlate nella stragrande maggioranza dei paesi europei, eccezion fatta per le regioni basche di Spagna e Francia, e per l’Estonia, la Finlandia e l’Ungheria – e idiomi che con quelli non hanno nulla da fare; sì, perché esiste una linea, sarebbe meglio dire un taglio, che parte dall’India centro-nord-orientale e arriva al sud-ovest della penisola, e che divide le lingue come hindi e bengali, appunto ario-europee, dalle altre, le dravidiche, del tutto inaccessibili a chi quelle parla: si capisce perché gli indiani per intendersi usino spesso l’inglese come lingua veicolare. Quanto al piccolo Saroo? Come non è detto che uno di Besançon debba poter capire a volo un romano, pur senza conoscere l’italiano, benché entrambi siano indo-europei, così uno che parla nimadi non può pretendere di farsi capire da chi parla hindi!
Ma perché Saroo giunge a Kolkata? Per andare a lavorare con suo fratello, perché gli aveva chiesto di trattarlo da uomo ormai. Beh, un ometto per davvero lo era Saroo a cinque anni; coraggioso si caricò un’anguria da portare a casa. Ne subì le conseguenze, ma lo fece. Coraggioso chiede al fratello un po’ più grande di lui, ma ancora imberbe, di poter accompagnarlo nel lavoro notturno. Ma si addormenta alla stazione ferroviaria. Al risveglio lo cerca. Ma dov’è? Dov’è andato Guddu. “Guddu?” grida quella sua voce fanciulla. “Guddu, dove sei?” “Aiuto!”. Lo cerca su un treno, su quello che nella sua mente di piccolo era il treno, quello che lui e Guddu prendevano insieme di soppiatto per andare a lavorare. E il treno parte, ma senza Guddu. Per sempre!
Saroo è ora in prigione. Sua compagna di viaggio una mela. Poi, mille chilometri più a oriente: “Fatemi uscire!” Nessuno dei mendicanti seduti sulla rena alla stazione di sosta gli risponde. Non per cattiveria, ma perché non ne hanno più, sotto quel sol leone, leone come il nome del bimbo, a quanto sembra. Ma poi perché non lo capiscono. Certo, Saroo non parla una lingua dravidica. Parla probabilmente il nimadi, ma non il bengali: saranno dolori a Kolkata! E davvero. Questo bimbo sperso, sperso come quando per correre dietro a Guddu si ritrovava tra farfalle svolazzanti, meravigliosa allegoria, assurda e rovesciata, perché ottenuta con mezzi del tutto naturali, dello sguardo innocente, piccolo, dolcemente assorto e contemplativo del poeta. Del fanciullo. Questo bimbo così piccolo ha un’arma. Una naturale, viva intelligenza, un’astuzia, una mêtis (μῆτις) direbbe il professore di greco, cioè quell’intelligenza pratico-pragmatica che ti permette di trarti d'impaccio, di cavartela, di trovare soluzioni estemporanee.
Ne aveva dato già prova Saroo, ingegnandosi d’aiutare la sua poverissima famiglia, con quella madre che tanto lo amava. Così teneramente. Con quella sorella fragile. Col fratello tanto generoso. Vivevano onestamente. Saroo riesce a sentire puzza di bruciato proprio quando deve, riesce a sopravvivere in questa spietata Kolkata in cui sembra possa farcela o chi è estremamente fortunato e scaltro allo stesso tempo, o chi si prostituisce, corpo e anima. Viene accolto, sì, amichevolmente, ma dalle persone sbagliate. Chi in India sembra accoglierlo davvero, lo fa con durezza. Saroo supera tutto e noi siamo catapultati nel suo XXV compleanno, anzi direttamente dentro i festeggiamenti. Lo vediamo divertirsi, sentirsi amato dai suoi genitori adottivi, dalla sua compagna. Le lacrime scorrono copiose per tutto il film.
Avete presenti i terzomondisti, quei tizi che credono nella cooperazione internazionale, nell’adozione di bambini a distanza? Beh, se si tratta di mode e abiti mentali, da finto radical, roba simile non trova posto in questa narrazione, o meglio qui c’entrano solo quelli che per serietà, per forte impegno etico, sperano, vogliono e cercano come possono di realizzare un mondo migliore. Non perché non possano aver figli, ma per restituire alla vita quelli destinati al macello. Anzi, sacrificando la propria capacità di avere discendenti e in qualche modo, se volete, strappandosi un pezzo di carne. Sì, perché nell’India urbana un bimbo è merce di scambio. No, anzi, dicevamo: carne, carne da macello. Ebbene, avevate capito giusto: c’è gente al mondo che pensa agli altri con tale generosità da preferir togliere dalla strada due bimbi e farne possibilmente altrettante persone felici piuttosto che avere figli propri. Gente che ama questi bimbi indifesi per quello che sono e per quello che possono dare, ciascuno nella sua tipicità. Per poco o molto che sia. E guai a recriminare, guai a far differenze, guai a distinguere il laborioso dal prodigo. Guai. Questo è amare come solo un padre e una madre degni del nome sanno fare.
È un film che parla anche di questo, del rispetto che si deve a ciascuno in quanto essere umano. È la forma più alta di altruismo. Da due “discendenti di galeotti” (le solite battute sugli australiani…). Ma le gabbie sono nella tua mente, non nella realtà. Se può liberarti lo sguardo di un bambino, allora adotta quello. Muta prospettiva, fatti bimbo pure tu. Altra grande lezione. Di vita. Data con l’esempio, in silenzio. Con umiltà.
Questo, proprio questo, dà a Saroo i luoghi e i tempi per capire e anche per non capire, per sbagliare, gli spazi che esige il suo diventare uomo, alla ricerca del suo io più profondo, anzi nello sforzo di pacificarsi con esso dove, quando e come Saroo può farlo. Ritornerà alla sua vita di amore e di bellezza. Quando potrà e quando capirà. Quando si sarà riconciliato. E allora che inizi la sua Odissea. La quale prevede un ritorno (un nóstos [νόστος], dice il grecista di cui sopra). Già, nostalgia. Nostalgia di sé? Nostalgia della bellezza e dell’amore, di quell’abbraccio. Nostalgia di quei baci.
E allora un abbraccio ancora al rispetto e alla tenerezza con cui era stato amato! E proprio da qui nuovamente vita amore casa.
A proposito dei discendenti di galeotti, la storia è vera, ed è quella della famiglia Brierley. Quella di Nicole Kidman è davvero un’ottima prova, convincente e commossa, di madre allo stesso tempo tanto energica e solare, quanto fragile, lunare, perché esposta ai sentimenti, in contatto con sé. Pienamente convincente, e pure commovente, anche la performance di Dev Patel. Bravo anche il piccolo Sunny Pawar.