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Lone Survivor. Guerra, onore e retorica
Il senso del dovere, l'onore, il patriottismo: al giorno d'oggi sono valori fuori moda. Ma in alcuni luoghi della terra, in alcuni gruppi di persone, in alcune esistenze, essi rappresentano ancora il senso della vita. Una vita in guerra. Basato su una storia vera, il 20 febbraio esce nelle sale italiane Lone Survivor, diretto da Peter Berg (The Kingdom, Hancock) e interpretato da un cast - Mark Wahlberg, Taylor Kitsch, Emile Hirsh, Ben Foster - che dona spessore a una pellicola troppo spesso auto-indulgente nella spettacolarizzazione della violenza e dalla morte eroica.
Il racconto ha inizio il 28 giugno 2005, quando una squadra di Navy Seal viene inviata per un'operazione di ricognizione nella provincia afghana di Kunar, fra le montagne aspre e ostili dell'Hindu Kush. La missione, conosciuta con il nome in codice Red Wings, ha lo scopo di scovare Ahmad Shah, un leader talebano responsabile della morte di numerosi soldati americani. Giunti sul luogo di osservazione, Marcus Luttrell (Mark Wahlberg), Michael Murphy (Taylor Kitsch), Danny Dietz (Emile Hirsh) e Matt Axelson (Ben Foster), scoprono che le comunicazioni radio e satellitari con la base sono schermate dalla montagna e che di fatto sono completamente isolati. Dal folto del bosco appare un gruppo di pastori afghani e per i quattro Navy Seal si profila una scelta che segnerà i loro destini: ucciderli per evitare che segnalino la loro presenza alle milizie talebane o lasciarli in vita e tentare una fuga disperata. Scelgono questa seconda opzione, e in poche ore si ritrovano circondati da un esercito di talebani armati di AK-47, mitragliatrici pesanti e lanciarazzi. Grazie all'aiuto di Gulab (Ali Suliman), un pashtun del luogo che si rifà all'antico codice morale del Pashtunwali, uno di loro riuscirà a sopravvivere, portando alto l'onore e il ricordo dei compagni caduti.
Lone Survivor, tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Marcus Luttrell, scritto con Patrick Robinson e pubblicato dal New York Times, è un film commemorativo e patriottico che insegna a combattere per gli ideali in cui si crede e a “Non abbandonare mai la battaglia”. Gli ideali professati nel film sono, ovviamente, quelli di stampo militaresco di cui è intriso l'immaginario bellico made in U.S.A., ovvero l'etica del sacrificio, del “Non abbandonare mai il compagno in pericolo”, e del “Non c'è morte più eroica di quella mentre servi il tuo Paese”. Da un lato, un'etica condivisibile e persino auspicabile in una Nazione come la nostra in cui il patriottismo è passato di moda prima ancora di diventarci. Dall'altro, però, occorre interrogarci sull'uso che in Lone Survivor viene fatto della memoria dei caduti e del “codice d'onore” da essi incarnato. Muoiono tutti coraggiosamente, è vero. Ma andavano onorati coraggiosamente riflettendo sull'orrore che li ha inghiottiti. Si sacrificano l'uno per l'altro. Ma si ha la percezione che vengano spesso sacrificati dalla macchina da presa sull'altare della spettacolarizzazione. La morte platooniana di Michael (Taylor Kitsch), stagliato in ginocchio su una roccia che fende l'orizzonte crepuscolare, è un cazzotto di retorica in pieno stomaco. E al pari di essa, altre scene indulgono in un'estetica che rischia l'osceno.
Spostandoci, invece, sul versante puramente tecnico, Lone Survivor si segnala come uno dei film bellici meglio realizzati degli ultimi anni. Dal punto di vista della messa in scena e della elaborazione post-produttiva - non a caso, ha ottenuto due nomination all'Oscar per il suono - il film immerge lo spettatore del fuoco della battaglia, con efficace realismo e con mirabile fluidità di montaggio. Le riprese si sono svolte in prevalenza sulle impervie montagne di Sangre de Cristo nel parco nazionale di Santa Fe, nel New Mexico, fra i 3.300 e i 3.600 metri di altezza: non certo il luogo più agevole in cui gestire una troupe, far muovere un cast e piazzare le macchine da presa.