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Madrid Teatro Real. Il ritorno di Turandot
Nell'anno in cui si celebrano i duecento anni della fondazione del Teatro Real di Madrid, dopo venti anni di assenza è stata messa in scena la Turandot di Giacomo Puccini (1858-1924). Gli spettacoli per desiderio di tutti gli artisti e di tutti lavoratori dei complessi artistici sono stati dedicati alla memoria di Montserrat Caballé, morta lo scorso 6 ottobre, che nel corso della sua lunga e luminosa carriera ricoprì entrambi i ruoli femminili di questa opera.
Chi ha avuto il grande privilegio di ascoltarla e ha conosciuto le sue non comuni capacità artistiche, che l'hanno portata a interpretare i ruoli più diversi dalla Cleopatra del Giulio Cesare di Händel alla Salome di Strauss, sa quanto questo omaggio sia più che meritato. Venendo alla Turandot i librettisti si basarono più che sul testo prolisso di Carlo Gozzi (1720 - 1806) sulla traduzione della commedia che Friedrich Schiller (1759- 1805) ne aveva tratto. Turandot è una delle commedie di argomento fantastico che riproponevano i “canovacci“ della “Commedia dell'Arte” con le improvvisazioni delle Maschere. Gozzi le scrisse in polemica con la “Riforma” di Carlo Goldoni (1707-1793) che superava la tradizione e si rivolgeva a un pubblico borghese. Molte delle commedie di Gozzi incontrarono il favore dei compositori e furono messe in musica, da Le Fate, opera giovanile di Richard Wagner, a quelle del '900, da Turandot non solo di Puccini, ma anche prima nel 1917, di Ferruccio Busoni, L'amore delle tre melarance di Sergej Prokof'ev, La donna serpente di Alfredo Casella, il Re cervo di Hans Werner Henze, tanto per citarne alcune. Queste commedie fantastiche hanno affascinato i compositori perché si prestavano ad una interpretazione vicina alla nuova sensibilità simbolista.
La scelta di un argomento fiabesco e simbolico è insolito per Puccini, che dopo le opere giovanili, Le Villi e l'Edgar, nelle opere precedenti aveva sempre scelto testi realistici. Turandot ha una origine antichissima con molteplici versioni e arrivò in Europa attraverso il filtro della tradizione persiana, come testimoniano i nomi Turandot e Calaf non presenti inizialmente, ma di origine persiana. Una delle versioni più antiche fu scritta da uno dei più importanti poeti del genere epico romanzesco persiano, l'azero Nizami (1141-1209). Il genere della fiaba si rivolge ai giovanissimi e tratta temi che riguardano il difficile passaggio all'età adulta, quello di Turandot è la sessualità, un problema condiviso da entrambi i sessi ma in modo diverso.
Turandot è il personaggio simbolico femminile, che rappresenta il terrore del rapporto sessuale con il maschio, di diventare vittima di un essere visto come un crudele predatore, la sua glaciale entrata lo racconta e così le implorazioni al padre dopo lo scioglimento degli enigmi, il gelo in cui si isola dal mondo è solo una difesa disperata. Calaf è il personaggio simbolico maschile, che all'inizio è diviso tra la repulsione e la fascinazione per l'altro sesso e poi ha il coraggio di superare la prova dei tre enigmi, prova che gli consente di passare all'età adulta. Per questo a sua volta mette alla prova Turandot e le chiede di indovinare il suo nome: “conoscimi, non sono quel mostro che credi”. La soluzione del bacio, suggerita dallo stesso Puccini, consente il cambiamento, il bacio è il simbolo fiabesco del passaggio da uno stato infantile a quello adulto, nella fiaba in Biancaneve come in quella de La bella addormentata. I tre dignitari Ping, Pang e Pong sono la trasformazione delle maschere ( Arlecchino, Brighella, Truffaldino e Pantalone) presenti nel testo di Gozzi e rappresentano il lato comico, anche grottesco in nero ma con risvolti umani.
L'opera è incompiuta perché come spiegato benissimo dal musicologo Mosco Carner (1904-1985) il musicista nel terzo atto ha trasformato Liù da personaggio fiabesco di contorno in uno reale, spostando l'attenzione su di lei e facendone la protagonista nella splendida scena a lei dedicata. Il perché di un simile errore da parte di un esperto drammaturgo, quale era Puccini, è inspiegabile razionalmente, mentre da un punto di vista psicologico è l'ossessivo ritorno al personaggio femminile prediletto delle sue opere precedenti, le uniche eccezioni sono la Zia principessa, in Suor Angelica e Turandot. A lungo non riuscì a trovare la soluzione poi arrivò il tumore alla gola e il cedimento del cuore durante la terribile cura a Bruxelles. La morte di Liù è l'ultimo brano orchestrato da Puccini mentre del duetto Turandot - Calaf sono rimasti gli appunti del musicista sempre insoddisfatto delle soluzioni.
Il compito di finire l'opera fu affidato da Arturo Toscanini a Franco Alfano (1875- 1954). Il suo finale però fu giudicato troppo lungo da Toscanini, che lo tagliò e così fu eseguto nelle recite successive alla prima assoluta, del 25 aprile 1926, in cui in omaggio a Puccini si fermò alla morte di Liù perché era l'ultimo pezzo composto e orchestrato dall'autore. La scelta di Toscanini era giustificata dal fatto che le opere di Puccini erano concepite con una durata dei diversi atti ben definita, l'ultimo atto è, con l'unica eccezione di Bohème, sempre il più breve. Turandot è andata usualmente in scena col finale tagliato. Ultimamente si è aggiunto anche il finale di Luciano Berio (1925-2003) commissionato da Ricordi ed eseguito per la prima volta al Festival delle Canarie da Riccardo Chailly nel 2002.
Lo spettacolo concepito da Robert Wilson con l'aiuto della sua equipe di collaboratori è molto curato nei vari aspetti, conoscendo quanto sia alieno dal realismo, la messa in scena di Turandot ci aveva molto incuriosito. L'ambientazione è stata posta in un oriente astratto e stilizzato, non così lontano da quello indicato dal libretto, le scene avevano un fondale scuro con pannelli scuri scorrevoli nel primo atto. Nel secondo atto al momento della scena degli enigmi sul fondo era proiettato un intrico di rovi che scompariva al momento dell'ultima soluzione, ma all'inizio del terzo atto si materializzava e da questo usciva dopo lunghe peregrinazioni Calaf. Una soluzione di ottocentesca memoria, ben conosciuta dagli appassionati di danza perché è tradizionale ne La bella addormentata. Il Principe Desiré, infatti, deve superare la prova dell'intrico dei rovi per sciogliere con il bacio l'incantesimo che fa dormire Aurora.
Le luci sono state molto curate in tutto lo spettacolo, suggestiva l'apparizione della luna piena nel primo atto. Nel terzo atto dopo il bacio, ovviamente espresso solo con un gesto simbolico, lo sfondo diveniva progressivamente tutto rosso, il colore di Turandot. Il trucco era orientale, base bianca, poi nero per gli occhi e sopracciglia, e rosso sulle labbra e le guance di Turandot. I colori dei bei costumi differenziavano i personaggi, il blu per quelli cinesi del popolo e di Ping, Pang e Pong, le scure armature dei soldati evocavano quelle degli antichi samurai, il bianco per i notabili e l'imperatore Altum. Di foggia diversa quelli dei tre stranieri ma sempre orientali con un colore chiaro vicino al panna e infine Turandot in rosso come le belle cortigiane, che i tre Ministri offrono a Calaf perché desista dal suo proposito.
Il grande fascino del melodramma è nell'unione di due cimenti, quello teatrale e quello musicale e in questo caso è da rimarcare la professionalità di tutti, dalle comparse, al coro, ai cantanti nel seguire le indicazioni dei gesti stereotipati e ripetitivi dei personaggi, con la unica eccezione di Ping, Pang e Pong. In questo caso diversamente dagli altri è stata evocata la gestualità e la mimica della “Commedia dell'arte” ma a differenza della rilettura di un Giorgio Streheler o di un Dario Fo, la serie di salti, di movenze morbide ed elastiche e la mimica erano ripetute in maniera ossessiva, nevrotica. Qui si rende necessaria una parentesi, i cantanti non sono abituati ad avere il controllo del corpo che hanno gli attori, per cui ricordiamo la bravura e professionalità di Joan Martín-Royo – Ping, Vicenç Esteve - Pang - e Juan Antonio Sanabria – Pong che si sono cimentati con successo in questo “tour de force”.
Veniamo alla parte musicale che ha avuto il suo punto di forza nella direzione di Nicola Luisotti coinvolgente e molto attenta alle dinamiche, ai ritmi e ai colori ottenuti anche con una serie di strumenti inusuali, dal tam tam ai gong cinesi. L'uso delle scale pentatoniche è impiegato non solo per avere una atmosfera orientale, ma anche nella ricerca di sonorità e armonie particolari con cui Puccini ha vestito la sua favola. Ci sono sì le splendide melodie per cui il compositore è celebre e amatissimo dal pubblico ma è solo l'aspetto più appariscente, non l'unico. Se si ascolta una interpretazione attenta come quella di Luisotti ci si accorge quanto sia novecentesco Puccini e come conoscesse le nuove creazioni musicali come il Pierrot Lunaire di Schönberg. L'interpretazione del maestro Luisotti ha messo in luce tutti questi aspetti complessi assecondato dall'orchestra, dal coro e dai cantanti. Nella rappresentazione a cui abbiamo assistito, il 12 dicembre scorso, durante la chiamata alla ribalta Luisotti ha abbracciato Andrés Máspero, maestro del coro per l'ottima prova offerta dal coro che è un personaggio fondamentale della Turandot.
Irene Theorin nel ruolo del titolo, è, come spesso avviene, una cantante soprattutto impegnata nel repertorio wagneriano, musicale e sicura nel registro acuto, meno convincente in quello grave, è troppo spesso incomprensibile. Di Gregory Kunde, un grande Calaf, non si è persa una parola, è sempre molto espressivo con uno splendido fraseggio, è sicuro negli acuti, come nei centri e nei gravi, non siamo abituati a vederlo così ingessato, perché possiede ben altro temperamento, ma con grande professionalità ha seguito le indicazioni della regia. Yolanda Auyanet è stata una sensibile e dolce Liù, vocalmente, perché di più non le è stato concesso, ha un timbro soave e una tecnica sicura. Andrea Mastroni si è ben disimpegnato nella parte di Timur, è un basso con timbro molto scuro ma morbido, Raúl Giménez come Altoum ha ben sostenuto il suo ruolo, coraggiosamente è stato sospeso in alto su una specie di altalena, una posizione non ideale per il canto. Brave le maschere, della parte scenica abbiamo già detto, Joan Martín-Royo, Ping, è stato, a nostro avviso quello vocalmente più convincente ma bene anche Vicenç Esteve, come Pang, e Juan Antonio Sanabria, come Pong concludeva efficacemente il cast Gerardo Bullón, come Mandarino. Applausi scroscianti hanno salutato la fine della rappresentazione.