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La malattia della morte alla Casa delle Culture. L'anestetica dell'Assenza
Il testo di Marguerite Duras La malattia della morte (del 1982, pubblicato nella raccolta Testi segreti, per Feltrinelli in Italia) ha preso forma attraverso le due voci ed i due corpi di Pino Calabrese e Letizia Letza e la guida alla regia di Natachà Daunizeau, alla Casa delle Culture dal 14 al 19 giugno 2011 con il titolo quasi omonimo di La malattia dell'aMorTe.
Quello che chiede l’uomo, anziano, alla donna giovane che dovrebbe recarsi a casa sua ogni notte e tacere è: “Essere alla sua mercé come le religiose sono alla mercé di Dio”. Il riferimento autobiografico del testo è all’ultimo lembo di vita che la Duras ha trascorso, in intervalli amorosi, vivendo con un omosessuale, esattamente come il protagonista della vicenda, che esige da questa prostituta nel racconto – di solito reso da un uomo in forma di monologo - di assoggettarglisi completamente.
Ci si domanda quale sia la richiesta profonda da parte dell’uomo: il Nulla, o meglio la nullificazione della regalità (parole del testo) della donna, in fondo cos’è la malattia della morte se non la malattia dell’assenza d’amore? La malattia della morte si vincola al corpo della donna contro quel Nulla dell’uomo che non riesce a comunicare e tantomeno ad amare, cercando nella violazione, o penetrazione del corpo, quel contatto che non è mai riuscito a stabilire differentemente.
Perché cercare nella donna la risposta alla malattia della morte? E’ nell’incontro con l’altro, col diverso da sé, magari davanti ad un paesaggio marino come ricorda la scenografia proiettata in un video, che si scopre la propria estraneità dall’altro, la stessa sua assenza nella presenza, derivante dalla differenziazione.
Un melanconico e e macabro clown rappresenta l’uomo e la sua disperazione, mentre il glorioso corpo di Letizia Letza si erge su quel letto dove tutto avviene, in una solitudine immensa, illuminata da una luce sotterranea, che coincide sempre più con le lumache di morte che Pino Calabrese lascia scorrere inesorabilmente sul sui viso, contratto in una smorfia di decadenza antiestetica ed anestetica.