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MAXXI. Il vento orfico di Dino Campana nella voce di Vinicio Marchioni
Su una distesa di alberi specchiati gli uni negli altri ed illuminati da lampadine come primevi alberelli luminari - Great Land, opera vincitrice di Young Architects Program 2015 -, due lettori dell'opera di Dino Campana nel suo periodo più sofferto, i suoi 14 anni di manicomio. Il primo lettore è testuale, narrativo come gli scritti, focoso come i Canti Orfici e la voce di Campana abbisogna: è Vinicio Marchioni. L'altro, Ruben Rigillo, musico sottile, canterà sottovoce, martellando con le dita una cassa acustica di echi affilati e profondi, connettendo il tessuto delle grida con le parole della musica.
Ha ragione Campana a chiamare quelli dell'Accademia dei Lincei et similia “l'accademia del Mantellaccio”, perché chi perde, per noncuranza come Ardengo Soffici, insieme al vicino Giovanni Papini, il manoscritto di uno dei più grandi poeti italiani del Novecento, chiamarlo stolto è un eufemismo. Ben altri necessitano. Anche per gli “avveduti” pischiatri di allora, o la sua famiglia incurante, che lo ricovera in manicomio mentre lui si leggeva a Ginevra il primo saggio di Freud su Leonardo. Chi sono costoro ? Le Giubbe Rosse che, obnubilate da finzioni politiche, non stimano nemmeno Marinetti, come rincara il poeta, giustamente.
Che dire? Si può solo rispondere con la sua poesia o del suo omologo austriaco, estimatore di Orfeo come Campana, autore dei Sonetti ad Orfeo (Die Sonette an Orpheus, 1923), il boemo Rainer Maria Rilke, e lo citiamo proprio perché avrebbe potuto consolare Campana, l'altro poeta orfico, che tesse altre parole:
Non è il tuo amore, o giovane, se anche
la voce forza la tua bocca – impara
a scordare il tuo canto. Esso trascorre.
Cantare in verità è un respiro diverso,
senza meta. Un soffio divino. Un vento.
(Sonetti ad Orfeo, I iii)
Queste righe avrebbero ricordato a Campana che coloro che non lo stimavano non avevano armi – si, armi a difesa del loro benpensante concetto di vita che li rappacificava col mondo, altro che il suo “canto di guerra” come quello di ogni poeta che combatte per tramare una nuova realtà – né strumenti per “leggerlo”, e preferirono dimenticarlo, far si che non esistesse. Ma Campana riscrisse il suo libro perduto, ed i Canti Orfici vennero pubblicati a sue spese nel 1914, e finalmente qualcuno come Emilio Cecchi si accorse di lui. Il riconoscimento vero però venne dopo la sua morte nel 1932 nel manicomio di Castelpulci a Scandicci (Firenze) e la sepoltura venne spostata nel 1946 nella chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo con Montale, Alfonso Gatto, Carlo Bo, Pratolini ed altri a testimoniare la presenza di un grande poeta.
La drammatica, struggente lettura di Vinicio Marchioni, di concerto con la malinconicamente ritmica scansione musicale di Ruben Rigillo, termina con Un viaggio chiamato amore, quello di Sibilla Aleramo, la musa che non sfiorirà mai nelle sue parole:
In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose
P.S. E così dimenticammo le rose.
(per Sibilla Aleramo)