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Miele. Le macchie di emozioni di Irene
Valeria Golino si presenta al pubblico sotto le insolite vesti di regista e presenta Miele uscito nelle sale il 1° maggio. Il film narra di Irene (Jasmine Trinca) che, sotto il falso nome di Miele, accompagna i malati terminali al suicidio con dei barbiturici che ricava illegalmente in Messico. La sua attività procede all’oscuro di tutti finché non incontra l’ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi) che chiede il suo supporto nonostante goda di ottima salute; questo sconvolge l’equilibrio della ragazza che inizia così un rapporto sempre più intimo con l’ingegnere che la porterà a liberarsi del peso della morte che respira ogni giorno.
La Golino affronta un tema molto difficile per il cinema e si appoggia liberamente ad “A nome tuo” di Mauro Covacich. Seppur coadiuvata da una sceneggiatura non originale, la regia correva il forte rischio di scivolare nel sentimentalismo e nella retorica più bruta, tipica dei film che affrontano temi topici della grande letteratura. La regista evita un approccio diretto alle grandi tematiche celate dietro alla trama e sceglie di consegnare il protagonismo al personaggio principale della storia, Miele, che seguiamo passo passo nella sua vita stra-ordinaria: le corse in bicicletta, i passionali rapporti con il compagno, e l’assistenza fredda ai suoi pazienti, che la conoscono come un’ombra che passa e li allevia dal dolore.
Così Valeria Golino scrive un film introspettivo che non si sogna di entrare nel periglioso cammino della filosofia ed elude la gravosità che un film del genere dovrebbe sopportare. La sua Irene, che trova un’ottima interprete in Jasmine Trinca, si nasconde dietro ai piccoli ripari di oggi e ne scopre la sconvolgente fragilità: l’incontro con Grimaldi, che le offre una visione cinica del suo operato, spezza l’equilibrio che le offrivano i suoi auricolari, il sesso e una semplicistica visione del dualismo vita-morte che si sgretola quando viene sollecitato dagli eventi.
La regia ci accompagna in questo percorso curando in particolar modo l’aspetto emotivo della storia di Irene, dilatando lo sguardo e l’ascolto sui particolari che vengono colti nel tempo ordinario e quotidiano della ragazza. La morte non viene mai mostrata, la scelta dei pazienti nemmeno: i nuclei pulsanti dell’accesa dialettica contemporanea non sono oggetto di interesse per lo sguardo della macchina da presa. La regia ci offre piuttosto macchie di emozioni di Irene; le vasche conquistate in piscina, le pedalate da sola nei campi, le occhiate fugaci dall’oblò dell’aereo, la musica che l’accompagna ogni giorno, e che si interrompe e rinasce bruscamente, insieme alla pellicola, immergendoci nel suo mondo solitario.
Trinca accoglie il personaggio di Irene con compostezza e una recitazione molto trattenuta, che sottolineano il carattere “sospeso” dell’intero film che sembra costantemente non rivelare i sentimenti: la Golino segue attentamente lo sguardo di Miele, inquieto e vivace, che stride con la sua corporeità fredda e mascolina, accogliendo con tenerezza i suoi rari sorrisi e lo scioglimento nel pianto liberatorio che si concede nel finale. Solamente nell’ultima scena la regia sembra rilassarsi per un finale poetico che lascia un gusto zuccheroso in bocca e non si concilia con il resto della drammaturgia.