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Moonlight. Le tre vite di Chiron
Otto anni dopo il suo dramma sentimentale apprezzatissimo dalla critica, Medicine for Melancholy, lo sceneggiatore e regista Barry Jenkins ci propone un film, Moonlight (già vincitore di un Golden globe), che racconta la dolorosissima iniziazione alla vita da parte di un ragazzo di colore che cresce nella Florida meridionale, in una situazione di partenza contrassegnata dall'indigenza e da un milieu dove covano pregiudizi razzisti, omofobia e rancori atavici. Annunciamo che il film ha ottenuto ben tre premi Oscar: miglior film, miglior attore non protagonista e migliore sceneggiatura non originale.
L'opera era nata all'interno della scuola di arte drammatica come progetto scritto dal drammaturgo di Miami Tarell Alvin McCraney e mantiene infatti un'evidentissima impronta drammaturgica, riconoscibile nella distribuzione narrativa della storia in tre atti, ognuno dei quali racconta un'epoca della vita del protagonista Chiron (infanzia – adolescenza – maturità ) che scandisce le varie tappe del cammino indirizzato alla conquista della propria identità e del proprio posto nel mondo.
Ad interpretare le tre diverse età della vita del ragazzo sono stati chiamati tre attori (Hibbert – Sanders – Rhodes) i quali appaiono armoniosamente collegati nei tre diversi capitoli. Il cast annovera inoltre Naomie Harris (Paula); Trevante Rhodes (Black); Mahershala Ali (Juan); Janelle Monae (Teresa).
Il film impasta tra di loro ingredienti narrativi quali la sessualità e la violenza, elementi di umanità da scontare nel momento del proprio ingresso nel mondo, quando ci si lascia alle spalle il nido protettivo della famiglia, all'interno del quale la vita custodisce e protegge sé stessa.
Il merito più grande che vorrei accreditare a questo film, fatto di tempi narrativi estremamente dilatati (la vita non sta mai nella brutale, grossolana gestualità dei fatti, ma nel deposito di emozioni che lasciano dentro ognuno di noi), è nell'attentissima amministrazione degli stereotipi narrativi, che rischiano a ogni momento di far precipitare la narrazione verso la retorica larmoyante del mondo sordo e indifferente ai patemi di un'anima innocente, un puro di cuore che non trova la diritta via in una selva selvaggia popolata da diavoli e bestie feroci.
Certamente il motore narrativo si alimenta anche della straordinaria bravura interpretativa dei tre attori che impersonano il protagonista durante le tappe della sua infanzia, adolescenza e maturità, ognuna dedicata all'esplorazione di sé stesso e del mondo intorno a lui; un mondo dove tutto appare definitivamente compromesso, senza nessuna possbilità di cambiamento, e dove la vita è condannata ad assistere inerte allo squallido spettacolo di sé stessa.
Il film, dicevo, è qualcosa in più della storia di un difficile riscatto umano e sociale; è una delicata meditazione cinematografica sulla difficoltà di esprimere le proprie emozioni, vaste e intimidatorie come tutto quello che sfugge alla nostra comprensione razionale, a quella che crediamo essere l'organizzazione adulta della nostra esistenza.
Alla storia perenne della vita, che si cerca senza mai riconoscersi, è dedicata l'indagine artistica di questo film, che torna ad affabularci a proposito della difficoltà e dell'emozione di stare al mondo.