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Morto Stalin se ne fa un altro. Tragicommedia totalitaria
Il regista italo-scozzese Armando Iannucci ci propone una travolgente commedia nera, una sorta di incrocio tra il biopic storico e la satira del potere à la Monty Python. Liberamente ispirato alla graphic novel La morte di Stalin, di Fabien Nury e Thierry Robins, pubblicata in Italia da Mondadori, il film esce in Italia con il titolo Morto Stalin se ne fa un altro, e mette in scena una delle fasi più critiche del totalitarismo sovietico, dove più che l'atmosfera da crepuscolo degli dèi si avverte un clima di disfacimento da basso impero.
Siamo nel marzo del 1953 a Mosca: un uomo giace sul letto privo di sensi. Non si tratta di un uomo qualunque: è un tiranno, un dittatore sadico e spietato. È Josif Stalin, il Segretario Generale del PCUS, la massima carica politica dell'Unione Sovietica.
Il film in realtà comincia con la trasmissione di un concerto: è Radio Mosca che trasmette una performance che prevede il concerto KV 488 per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart. Una volta terminato il concerto, è lo stesso Stalin (Adrian Mcloughlin) che chiama per telefono il direttore dell'emittente radiofonica (Paddy Considine) per dirgli che vorrebbe averne una registrazione. Dal momento che il concerto non era stato registrato, il direttore cerca freneticamente di farlo ripetere, fino a reclutare i passanti al posto del pubblico e corrompendo la pianista Maria Yudina (Olga Kurylenko) perché replichi la sua performance. Perfino il direttore d'orchestra viene sostituito dopo che l'originale, Spartak Sokolov (Justin Edwards), era caduto a terra tramortito da un estintore staccatosi dalla parete.
La pianista fa in tempo a includere una nota diretta a Stalin nel plico contenente la registrazione, in cui accusa il dittatore chiamandolo tiranno e imputandogli la rovina del paese. Stalin riceve la registrazione, e mentre legge la nota, inizia a ridere fino a venire colto da un ictus, con relativa emorragia cerebrale. Il giorno dopo, si scopre che Stalin è ormai in coma, e i membri del Comitato centrale vengono allertati. I primi ad arrivare sono il feroce capo della potente polizia segreta (la NKVD, ossia il cosiddetto Commissariato del popolo per gli affari interni; in russo: Народный комиссариат внутренних дел, НКВД, traslitterato: Narodnyj komissariat vnutrennich del) Lavrentiy Berija (Simon Russell Beale), che scopre la nota di Maria, e il vicesegretario generale Georgy Malenkov (Jeffrey Tambor). Non appena Malenkov, il successore "designato", comincia a farsi prendere dal panico, Berija inizia abilmente a guidarlo e a prendere il comando in assenza di Stalin, sperando di utilizzare il debole Malenkov come un burattino.
Ma subito dopo arriva Nikita Kruščëv (Steve Buscemi), seguito dal resto del comitato, ad eccezione del ministro degli Esteri Vyacheslav Molotov (Michael Palin), che era stato aggiunto a sua insaputa in una delle liste di proscrizione di Stalin la notte prima. Due fazioni emergono rapidamente: da una parte Berjia e Malenkov, e dall'altra Kruščëv e il ministro del Lavoro Lazar Kaganovich (Dermot Crowley), mentre gli altri membri del Comitato rimangono neutrali, pur inclinando verso Malenkov, in quanto la sua posizione sembra più forte. Berija inizia ad esercitare la sua influenza, chiudendo Mosca e facendo in modo che l'NKVD assuma tutte le funzioni di sicurezza in città sottraendoli all'Armata Rossa, oltre a sostituire le liste di proscrizione staliniane, salvando così Molotov. Le due parti lottano anche per aggiudicarsi piccole vittorie simboliche come il controllo sui figli di Stalin, fino a quando il dittatore finalmente muore, anche a causa dell'imperizia dei medici (e forse in questo momento si sta pentendo di aver fatto rinchiudere nei gulag tutti i medici più capaci, sic!). Tutti i membri del Comitato si precipitano disperatamente a Mosca, mentre il NKVD saccheggia la dacia di Stalin e giustizia sommariamente i testimoni.
Kruščëv cerca di ottenere il sostegno di Molotov, ma questi, come un vero "credente" nello stalinismo, si oppone a qualsiasi divisione all'interno del Partito, come nelle previsioni di Berija. Quest'ultimo acquista ulteriormente la fedeltà di Molotov liberando sua moglie (Diana Quick) dalla prigionia. Malenkov è nominato nel frattempo alla carica di premier nominale, grazie anche alle manovre del capo della polizia segreta che lo controlla passo dopo passo. In occasione della prima riunione del Comitato dopo la morte di Stalin, Berija rafforza la propria posizione e si schiera a fianco di Kruščëv, affidandogli il compito di organizzare i funerali di Stalin. Egli suggerisce anche inaspettatamente molte delle riforme liberali che lo stesso Kruščëv aveva previsto di introdurre. Sicché quest'ultimo si sente costretto a parlare contro le riforme, ma Berija e Malenkov le fanno approvare con la loro autorità.
Il corpo di Stalin viene esposto per tre giorni nella Sala delle Colonne, mentre molti prigionieri politici vengono rilasciati e le restrizioni alla Chiesa ortodossa russa vengono allentate, misure che procurano a Berija un certo sostegno popolare. Nel frattempo, arriva il maresciallo di campo Georgy Zhukov (Jason Isaacs), il leader dell'Armata Rossa, che chiede di sapere perché l'esercito è stato confinato nelle caserme all'interno di Mosca. Kruščëv si rende però conto del fatto che Beria potrebbe farlo implicare in accuse di complotto e di tradimento, sicché si avvicina a Zhukov, che accetta di fornire il sostegno dell'Armata rossa in un colpo di stato per rovesciare Berija, ma solo se avrà l'intero Comitato centrale dalla sua parte.
Non riveliamo qui il resto della trama, limitandoci a sottolineare che anche i momenti più drammatici e gli improvvisi colpi di scena sono scanditi da un'atmosfera oscillante tra il grottesco e il satirico: i grandi e spietati leader dell'URSS sono consegnati alla loro dimensione umana, troppo umana, in cui vengono rivelate le loro debolezze e le loro meschinità: nei giorni di zuffa per il potere, questi uomini vennero accecati dalla follia, da un delirante egoismo e da una bassa disumanità.
Il film riesce nella difficile impresa di trovare un equilibrio, per quanto precario, tra la comicità dell’assurdo, inscindibile dal mondo del dittatore sovietico, e l’indicibile brutalità su cui si basava il regime totalitario di Stalin. Lo spiega lo stesso regista: “il mio intento era quello di girare una tragi-commedia, nel senso che la commedia e la tragedia sono presenti durante tutto il film, spesso contemporaneamente nella stessa scena, perché la situazione era davvero quella. Abbiamo fatto delle ricerche sulla Mosca degli anni ’40 e ’50 ed era un periodo orribile: chiunque conosceva qualcuno che era stato spedito in un gulag o a cui avevano sparato temeva per sé. L’intento era rendere il film divertente, ma allo stesso tempo snervare lo spettatore.”
La sfida di Iannucci è riuscita: il film è allo stesso tempo "divertente", almeno relativamente al contesto in cui è ambientato (in cui milioni di persone sono state uccise o sono scomparse, cosa che non si può ignorare o spiegare con una battuta), e riesce a mostrare che cosa accade dietro le quinte della storia.