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Nicola Lagioia. L'impasse dei genitori
Il romanzo di Nicola Lagioia intitolato Riportando tutto a casa parla di tre adolescenti, a Bari, negli anni Ottanta. Gli anni in cui, senza un evento si è consumato un dramma, la perdita del senso della famiglia, il degrado sociale, la deriva consumistica.
"La Milano del Sud" è ricca ed operosa, ma ha ai suoi confini il quartiere popolare Lapigia, piazza di spaccio, che come il pifferaio magico prima o poi attrae i tre amici, Giuseppe, Vincenzo e l'io narrante, i protagonisti.
In un precipitare tragico, sordido, perché: "I cambiamenti scavano la fossa al vecchio mondo in modo che il suo crollo sia spesso silenzioso. E' così che cambiano gli uomini - una smorfia, uno scatto di nervi, una parola al posto di un'altra - è in questo modo che da un momento all'altro non siamo più noi stessi" (pag. 168).
I loro padri pensano solo al lavoro, ad accumulare la "roba" di verghiana memoria; le madri o accompagnano questi padri, oppure non ci sono e così non aiutano i maschi ad apprezzare le donne. Quelli che dovrebbero essere i punti di riferimento maschile e femminile, sono persone a metà, non si accorgono del crescere dei propri figli, delle loro amicizie, poi del sesso, infine della disonestà e della droga, non li guardano né li ascoltano. Dicono le solite cose, come: "studia, mi raccomando, ti è stata data un'opportunità che non io ho mai avuto" (pag. 6).
Le tre famiglie in questione sono come le altre: anche "i genitori di Luca " (nella cui casa vuota i ragazzi si riuniscono nei pomeriggi di noia e dissolutezza) "non ci sono mai e non si capisce mai il perché: non lo sapevo allora, non lo so adesso, non lo saprò mai", confessa il narratore. Sì, perché lui per capire, vent'anni dopo, è tornato a casa. "Riportando tutto a casa", come sintetizza il titolo del romanzo, titolo che traduce letteralmente il titolo di un album di Bob Dylan Bringing it all back home.
Ha cercato Giuseppe, Vincenzo, la ragazza di lui, la propria madre e il proprio padre, ormai separati, in quest'ordine cronologico. Combattuto fra il volerli incontrare: "Non c'è memoria che resti più viva di quella che continua a procurare angoscia in chi rimane", pag. 207); e il non: "C'è sempre qualcosa di sbagliato nel rintracciare i vecchi amici", pag. 205). Tanto "Non si perde quel che non si è mai avuto, non si ha quel che non si è mai perso" (pag. 288), frase che chiude il romanzo di Nicola Lagioia, trentenne barese.
Lagioia ha una scrittura avvincente come il primo Niccolò Ammanniti, quello di Io non ho paura. Ovvero lì erano gli anni Settanta, gli anni di piombo, terrorimo e estorsione; cui seguirono gli anni di fango, arricchimento e consumismo. In ambedue i romanzi, è di sfondo la televisione, lì quella pubblica con i telegiornali in bianco e nero; qui, la novella TV commerciale e le sue trasmissioni ridanciane e indiscrete. Lì il bambino protagonista scopriva che la famiglia (di contadini) aveva sequestrato un bambino per il riscatto; qui, le famiglie di commercianti hanno case lussuose, ove si coabita non si convive; e il narratore dice "Detestavamo i nostri genitori" (pag. 187).
Ammoniva Oscar Wilde, padre non senza colpe: "I figli all'inizio amano i genitori, ma poi li giudicano; raramente, forse mai, li perdonano".
Il romanzo di Lgioia, Premio Viareggio 2010 è stato escluso dalla rosa finalista del Premio Biblioteche di Roma.