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Opera a Caracalla. L'enigma di Turandot
Lo scorso 15 luglio Caracalla ha visto Turandot sul palcoscenico romano con la regia, le scene, i costumi e le luci di Denis Krief, lui che ha inaugurato la stagione con Rusalka. Fino a sabato 8 agosto – in alternanza con tutto il ciclo pucciniano e non solo - Turandot sarà la soprano wagneriana Iréne Theorin (Maria Billeri 31 luglio; 4, 8 agosto), diretta da Juraj Valčuha (Carlo Donadio 4, 8 agosto); le altre parti di Calaf sarà Jorge De León (Antonello Palombi 20, 31 luglio; 4, 8 agosto) e Liù sarà Maria Katzarava (Rocío Ignacio 28, 31 luglio).
Nella bella tessitura propostaci da Juraj Valčuha al suo debutto all'Opera di Roma a Caracalla sul podio, si rilegge il finale di Puccini decretato da Toscanini nella prima assoluta alla Scala del 25 aprile 1926, ovvero con la morte della “poesia” Liù, della “dolcissima”, anche nelle parole della folla, ora impaurita dalla maledizione della vittima pura, per il gelo della Principessa Turandot, composta da Puccini dal 1919 fino all'anno della morte, il 1924, e rimasta incompiuta.
Un grande affresco sul femminile fatale e vendicativo: la Principessa Turandot è infatti la reincarnazione di un'antenata (l'Ava di cui ripete anche nel finale ricostruito da Alfano, da Berio ed infine da De Simone, e di cui Puccini parlò all'Adami ed al Simoni più volte nelle lettere che si legogno nel programma) che ha subito una violenza che lei si è incaricata di vendicare su tutti i suoi pretendenti, negandosi a quell'amore per cui Liù morirà, trapassata da un pugnale, nel finale attestato come unico sia dal libretto sia dalla musica: in questa versione viene giustamente osannata dal pubblico la Liù impersonata dalla emozionante Maria Katzarava.
Nella versione che abbiamo visto in questo nuovo allestimento del Teatro dell'Opera di Roma a Caracalla e curato da Denis Krief, si apre uno squarcio di lettura psicoanalitica sul personaggio fatale di Turandot, pieno di ambiguità: difatti il mago dell'inizio che interpreta un mandarino - scenico ed attoriale Gianfranco Montresor -, sembra impersonare un Drosselmeyer (dallo Schiaccianoci di Hoffmann); e Turandot assomiglia alla Coppelia (di nuovo Hoffmann) che ipnotizza Calaf (Il Principe Ignoto), perdutosi in mezzo alle bambole e trovandone una proprio con la medesima veste di Turandot, che esce nondimeno da una sorta di torre rossa costruita di mattoni metallici. Brava in questa veste Iréne Theorin (lei, wagneriana e straussiana, con molte Turandot alle spalle) che proferisce poche parole perentorie, che sono di condanna con una voce quasi tenebrosa su cui la musica stessa si infrange come su un'oscurità immane, perduta nell'averno del tempo.
Solo Calaf, - il ben ardito ispanico Jorge De León, soprattutto nell'aria notturna che seguirà, “Nessun dorma”-, prova a distoglierla dal suo isolamento dentro una torre-rifugio insieme alla bambola che la riproduce, dietro cui scompare Turandot, figlia dell'Imperatore cinese Altoum, l'adeguato al ruolo Max Renè Cosotti, presentato più come una persona quasi comune in questa Cina maoista con tutti in costumi rossi e blu.
L'enigma di Turandot resiste al tempo quindi anche in questa veste post-rivoluzione con Ping (Igor Gnidii), Pong (Massimiliano Chiarolla), Pang (Gianluca Floris), grotteschi e ciarlieri e le seduttrici di Calaf in veste da baccanale di basso livello.
Il grande travaglio nella composizione della sua ultima opera in qualche modo attesta che il mito cortese ripreso da Wagner, ossia il Tristano, ed annotato su una pagina della Turandot da Puccini (“poi il Tristano”, testuale, dopo la morte di Liù); sopravvive al tempo e dipinge un amore impossibile in Occidente che tuttora non trova lisi. La catarsi certamente si, da un'altra donna, Liù, la schiava del Re dei Tartari, Timur – commovente Marco Spotti nella parte -, innamoratasi di Calaf, il Principe straniero che scioglierà gli enigmi di Turandot senza rivelare il suo nome. Enigma su enigma, nomen omen, che riprende anche il wagneriano racconto del cigno, Lohengrin, che termina tragicamente sulla richiesta inopportuna del nome, il dramma di Turandot ruota appunto intorno alla mancanza di fiducia di lei nell'amore e nella maledizione dell'Ava di cui si fa carico e personificazione.
Quella che però permane come una voce sincera fra le asperità del nugolo di fumo da cui nasce e dove ritorna Turandot dopo aver emesso la condanna, è sempre la Liù di Maria Katzarava: commovente e attoriale nel canto e nelle movenze affrante, merita un palco d'onore solo lei. Juraj Valčuha ha ben esaltato con l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma, la cesellata partitura pucciniana ricca di cineserie e di variazioni quasi d'avanguardia; così il Coro diretto da Gabbiani, con la sua bella prova.
Rimangono gli enigmi, anche quelli sciolti da Calaf, di Turandot, perché, nonostante il sacrificio di Liù, il duetto cui pensava Puccini non ci sarà, e la Principessa non sembra aver pietà, piuttosto sbalordimento per il dono d'amore di Liù verso Calaf, non rivelando il nome di lui, forse rimanendo, nonostante tutto, prigioniera del suo teatrino di bambole e ricordando i versi di Ping Pong Pang, novelli fool, a Calaf nel primo atto:
“Turandot? Ah, ah, ah! Turandot!
O ragazzo demente! Turandot non esiste!
Non esiste che il niente nel quale ti annulli! Turandot non esiste, non esiste!
Turandot!”