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Opera di Roma. Un infinito Albatros tra Mahler e Leopardi
La serata dell'8 dicembre 2024 al Teatro Costanzi ha visto svolgersi un incontro straordinario tra poesia e musica, in un evento che ha saputo restituire la profondità del pensiero di Giacomo Leopardi, grazie a un riuscito connubio con la musica di Franz Schubert, Gustav Mahler e Ludwig van Beethoven, attraverso le interpretazioni di Michele Mariotti e Sergio Rubini. La scelta del Direttore musicale della Fondazione Capitolina di intrecciare i versi del poeta recanatese con le opere dei tre grandi musicisti è risultata particolarmente felice nel creare un dialogo tra sensibilità artistiche differenti ma affini.
Sergio Rubini, alla sua prima esibizione sul palco del Teatro dell'Opera di Roma, ha dato voce a un Leopardi vitale e titanico, lontano dai cliché del poeta fragile e malinconico. Le sue letture sono state aperte da Il passero solitario, poesia da Leopardi stesso apposta agli altri Idilli a mo' di "prefazione": utilizza una metrica flessibile (strofe libere con rime al mezzo) che accentua l'introspezione e la fluidità dei pensieri del poeta. Leopardi adotta un tono oscillante tra il riflessivo e il meditativo, al fine di sottolineare il contrasto tra la solitudine dell'uccello e il mondo circostante. La poesia è incentrata sull'immagine di un passero che, mentre vola solo e lontano dagli altri uccelli, rappresenta la figura del poeta, solitario nella sua riflessione esistenziale, in questo simile all'albatro di Charles Baudelaire. Infatti, il passero, che vive da solo, canta malinconicamente, simboleggiando una condizione di isolamento che non è però dolorosa quanto quella del poeta. Parimenti, nella poesia L'albatros, Baudelaire descrive l'uccello come una creatura maestosa in volo, ma che, quando è costretto a camminare sulla terraferma, diventa goffo e maldestro (Le Poète est semblable au prince des nuées/Qui hante la tempête et se rit de l'archer ;/Exilé sur le sol au milieu des huées,/Ses ailes de géant l'empêchent de marcher). Questo contrasto tra la grandezza nel cielo e la debolezza a terra simboleggia l'alienazione dell'artista, che si sente a suo agio solo nel mondo delle idee e dell'arte, ma inadeguato nella vita quotidiana. Ma il passero leopardiano non vive solo di tristezza: nel suo canto c’è una forma di libertà, ma anche una consapevolezza che, pur in mezzo alla solitudine, c'è una bellezza intrinseca nel proprio esistere, che il poeta non può fare a meno di apprezzare. Questo tema di solitudine come occasione di introspezione e di elevazione spirituale è tipico della poetica leopardiana, che non dipinge la solitudine come un assoluto negativo, ma come un'opportunità di riflessione e di contemplazione.
Peraltro, l'immagine del passero che osserva il paesaggio primaverile "pensoso in disparte", quasi antropomorfizzato nell'attribuzione del pensiero richiama l'idea di un distacco esistenziale, dove il poeta sembra predelineare il peso del tempo che scorre e il rimpianto per i piaceri non fruiti. Questa descrizione è un esempio della poetica dell'indefinito di Leopardi, che utilizza termini ed immagini capaci di evocare vastità e introspezione. Immagini che probabilmente ha attinto a Dante, come è stato rilevato acutamente da Dario Pisano: non è difficile notare come il verso "Che rimbomba lontan di villa in villa" possa evocare una reminiscenza dantesca. Si legge infatti in Paradiso XX, 37-39:
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa
Qui Dante celebra il re Davide, definendolo il "cantor de lo Spirito Santo" per i suoi salmi e facendo riferimento al trasporto dell'Arca dell'Alleanza da un luogo all'altro (di villa in villa). In entrambi i casi, l'immagine esprime un movimento nello spazio che si carica di significati: per Dante, è un richiamo alla sacralità e alla dimensione religiosa; per Leopardi, invece, suggerisce una condizione di isolamento amplificata dalla vastità dello spazio. Sempre in Paradiso XX, nei versi 73-75 ("Quale allodetta che in aere si spazia...") si coglie una sorta di "anteprima" leopardiana, visualizzata nel canto melodioso dell'uccello che si propaga nel paesaggio, qui come in Leopardi. In qualche modo, la coreografia delle anime beate nel Paradiso dantesco diventa la fonte delle traiettorie emotive e quasi speculative dei passeri nel cielo di Recanati.
Il programma musicale ha offerto una straordinaria tessitura emotiva, con l’Entr’acte n. 3 di Schubert dal dramma Rosamunde che, nella sua leggerezza malinconica a metà tra suggestioni mozartiane e tormento romantico, riesce a trasfigurare il dolore in sublime bellezza. Schubert e Leopardi (quasi coetanei ed entrambi scomparsi prematuramente) hanno in quest'accostamento condiviso una visione poetica che esplora il confine tra fragilità umana e tensione verso l’assoluto, rendendo la loro accostamento particolarmente suggestivo.
Alla musica di Schubert è seguita la lettura de Le ricordanze di Giacomo Leopardi, da Rubini profferita con grande espressività. In questo vero e proprio poemetto (la metrica, in endecasillabi sciolti, riecheggia quella dell'ode classica), Leopardi esplora la tematica del contrasto tra il passato, evocato attraverso il ricordo, e la realtà presente, caratterizzata dal dolore e dalla delusione. Il componimento è strutturato in forma di ode e si articola in varie strofe, benché la metrica non sia quella dell'ode classica. La scelta metrica meno solenne non impedisce al poeta di dare al componimento un senso di solennità e di distanza, accentuando la sensazione di un passato che non può essere più recuperato, con accenti di alta riflessione e di lirismo profondamente intessuto nei versi.
Rubini ha poi letto Il sogno, un'altra composizione di Leopardi che segue un andamento più riflessivo e lirico. La metrica è più rigorosa rispetto a Il passero solitario, con una struttura in versi endecasillabi sciolti, che contribuiscono a dare un tono solenne alla meditazione che il poeta sviluppa intorno al sogno e alla sua relazione con la realtà: il sogno è una condizione che sembra promettere felicità e speranza, ma che, come il passaggio del tempo, si rivela effimero e ingannevole. Per molti versi il sogno è, quasi come in Freud, una potente metafora dei desideri irrealizzabili dell'uomo, che si presentano come promesse di felicità ma che, alla fine, sono solo inganni.
Si ritorna alla musica con il ciclo dei Kindertotenlieder di Mahler, interpretato con intensità dal baritono Markus Werba, che ha portato in scena un diverso rapporto con il dolore. Se Leopardi e Mahler si incontrano nella consapevolezza della tragicità della vita, la musicalità del compositore boemo – qui costruita sulle poesie di Friedrich Rückert – conferisce ai versi una dimensione lirica che ne amplifica la portata emotiva. La trasposizione liederistica di Mahler non solo esalta il testo poetico, ma lo immerge in un universo sonoro che ne amplia le sfumature, creando un dialogo tra parola e musica capace di coinvolgere profondamente l’ascoltatore. Come ha scritto Quirino Principe, "la duplice ispirazione attinta a Rückert potrebbe essere battezzata con le due parole meccanicamente ripetute da chiunque abbia scritto mezza riga intorno a Mahler, o presentato in un programma di sala una delle sue pagine più ovvie: Eros e Thanatos. [...]. Pe intendere i Lieder rückertiani, altre due parole sono appropriate: estasi e lutto, l'una e l'altra nel significato originario, ekstasis, l'appartarsi dal mondo, l'esserne fuori, e luctus, il lugere, il pianto di chi resta solo dopo che è passata la morte".
Da par suo, il grande musicologo e filosofo Theodor W. Adorno ha sottolineato che "la musica di Mahler accarezza maternamente i capelli a coloro a cui si rivolge,e così nei Kindertotenlieder l’affetto del prossimo si intreccia col conforto crepuscolare di una lontananza infinita: entrambi fissano lo sguardo sui morti come se fossero fanciulli. La speranza del non divenuto, postasi come un’aureola di santità intorno ai morti prematuramente, non si estingue nemmeno per gli adulti". Per Adorno, è come se la musica di Mahler fosse il cibo per una bocca ormai incapace di mangiare, come una sorta di accompagnamento del sonno di chi non si potrà più svegliare. La frase ricorrente "spesso penso che siano solo usciti di casa" allude all'amore sfrenato, che concepisce la morte solo come se fosse la partenza di fanciulli che ritorneranno. I Kindertotenlieder presentano una particolare applicazione della tecnica delle varianti: Mahler, usando gli aggravamenti e le diminuzioni, conserva in maniera semplicissima un elemento melodicamente identico pur modificandolo. I Kindertotenlieder sono un centro di forza che proietta i suoi raggi su tutta l’opera di Mahler a partire dalla Quarta sinfonia.
Il culmine musicale della serata è stato forse raggiunto con la Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 di Ludwig van Beethoven, la celebre Eroica. La scelta di legare questa composizione alla lettura di una delle Operette morali, ossia La scommessa di Prometeo si è rivelata particolarmente pregnante: il titanismo di Leopardi, adombrato attraverso la figura di Prometeo, trova un corrispettivo ideale nella forza eroica della sinfonia beethoveniana, capace di celebrare l’indomabile spirito umano di fronte alle avversità. L'Operetta di Leopardi non è soltanto una rilettura del mito antico (anche secondo l’interpretazione contenuta nel Protagora di Platone) o una ripresa del dialogo Ermotino di Luciano di Samosata, dove pure assistiamo al concorso tra singolari e ingegnosi dèi inventori: Leopardi riscrive il mito nella direzione di una critica radicale alla natura umana.
Il genere umano, che si trovi nello stato di natura o che sia abituato alla civilizzazione della vita associata, oscilla in un perenne e apparente equilibrio tra perfezione e imperfezione, anche se il pessimismo leopardiano tende piuttosto ad accreditare la seconda caratteristica come connaturata all’uomo, in contrasto con ogni superbia religiosa ed umanistica. Il dialogo comincia con la finzione di una sorta di concorso a premi bandito nel luogo immaginario di Ipernéfelo, allo scopo di individuare la più utile invenzione umana. Vi partecipano le divinità più importanti, ma il terzetto che si dovrebbe spartire l’ambito riconoscimento è costituito da Bacco, per l'invenzione del vino, Minerva, per l'olio (usato sia in cucina, sia per massaggiare e profumare i corpi), e Vulcano, per l'invenzione della pentola da cucina. Paradossalmente, i vincitori rinunceranno al premio, mentre ne verrà escluso colui che più di tutti vi ambiva, ossia il titano Prometeo: questi, convinto che la migliore invenzione sia lo stampo con cui aveva forgiato il primo essere umano, persuade Momo, dio dello scherno e della calunnia (e che esercitava un ruolo significativo anche nello Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno), a seguirlo sulla terra, dove cercherà di provare la sua tesi. Ma si troveranno di fronte a tre situazioni raccapriccianti: un uomo definito “selvaggio” che si dedica a pratiche antropofaghe sui propri figli (un livello di imbarbarimento che perfino Cormac McCarthy in The Road esiterà a ipotizzare, ma che già Michel de Montaigne aveva descritto senza toni "moralistici"), una vedova che viene bruciata viva in memoria del marito; un uomo facoltoso che si suicida, uccidendo al contempo gli altri membri della famiglia per semplice taedium vitae (in contrasto con i doveri verso sé stessi di cui parla Immanuel Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi).
A questo punto, Prometeo rinuncia alla sua scommessa, benché si arrivi a una sorta di conclusione paradossale: Prometeo avanza, in conformità con Leibniz, la tesi che il mondo sia assolutamente perfetto, ma Momo sostiene che potrà accettare questa tesi se e solo se essa verrà contemperata dall’asserzione che il mondo contenga anche tutti i mali possibili, come sostiene Plotino nel terzo libro della II Enneade: “perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé, tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi possibili”. Questa rilettura del mito appartiene, come ha giustamente rilevato Gaspare Polizzi nel suo libro Giacomo Leopardi. La concezione dell'umano, tra utopia e disincanto, dedicato all’antropologia negativa del filosofo recanatese, a una sorta di tradizione prometeica “minore”, ossia alla serie di interpretazioni “in chiave satirica e critica della tradizione religiosa”, in cui “il Titano irride gli dei e contrappone a essi gli uomini nel loro processo di emancipazione dalle credenze e dalle superstizioni”.
La posizione quasi anti-umanistica espressa in quest’Operetta ci permette addirittura di avvicinare Leopardi al filosofo tedesco Günther Anders, per il quale “la nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto in avanti, con la cattiva coscienza di esseri antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici” (Der Mensch ist antiquiert, tr. it. L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della Terza Rivoluzione industriale). Del resto, come ebbe a osservare Nietzsche in un frammento postumo del 1874, “nel creare gli uomini, Prometeo ha commesso l’errore di separare nel tempo la forza e l’esperienza dell’uomo: la saggezza ha sempre una certa debolezza senile”.
Sempre Polizzi ha ricordato come il mito di Prometeo nelle sue varie declinazioni romantiche, soprattutto inglesi e tedesche, abbia avuto una particolare fioritura mentre Leopardi scriveva la sua Operetta (dal Prometheus incompiuto di Goethe al Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley fino alla presenza di Prometeo nei Dialoghi degli dèi di Christoph Martin Wieland, autore molto caro a Leopardi: “Anche la prorompente vocazione prometeica e titanica della cultura tedesca e inglese tra fine Settecento e inizio Ottocento presenta un intreccio di motivi non lineare, nel quale è riscontrabile una linea antiprometeica che si esprime nella condanna della concezione progressiva della modernità e nell’irrisione della presunta perfettibilità della civiltà umana". E come non ricordare che negli stessi anni Mary Shelley, scrivendo Frankenstein or the modern Prometheus (1818), sviluppò in termini assolutamente perturbanti il tema del titano ribelle e sconfitto?
Passando alla sinfonia di Beethoven, va osservato che Mariotti ha diretto con maestria, evidenziando le tensioni drammatiche e le dinamiche vigorose che rendono l’Eroica un’opera emblematica del passaggio dal classicismo al romanticismo musicale, che, con le sue tormentate vicende compositive e la dedica poi cambiata, esprime il percorso tumultuoso dell'autore. Mariotti in ogni movimento, dall'alto della sua grande esperienza e predilezione per il grande repertorio sinfonico dell'Ottocento, ha esaltato ogni minima sfumatura e contrasto della scrittura, così inconfondibile e che tanto amiamo in Beethoven.
Il primo movimento, Allegro con brio, esprime perfettamente il senso della celebre osservazione di Adorno per cui nel primo Beethoven è presente un'evoluzione dal patetico-decorativo al tragico passando per il romantico. Questo primo tempo, il più "classico" di Beethoven è anche, paradossalmente, il più romantico, grazie a stilemi come l'accordo alterato schubertiano (sol bemolle, si bemolle, do, mi) e alle dissonanze prima dell'entrata del tema nuovo nello sviluppo.
Il secondo movimento, la celebre Marcia Funebre, è un capolavoro di espressività nel quale è lo stesso autore che ci parla, con malinconia, nel desiderio di condividere con noi la delusione ed il disinganno che aveva provocato in lui la figura di Napoleone, originale destinatario della sinfonia ma che, dopo l'autoincoronazione si era rivelato “uomo” come tutti gli altri e non simbolo di cambiamento. Affascinante il colore orchestrale ottenuto nella sezione in tonalità maggiore nella marcia funebre, una sorta di raggio di sole destinato comunque ad essere offuscato da nuvole che riportano lo stato d'animo alla visione di una realtà accettata a fatica.
Negli ultimi due movimenti Mariotti conduce l'orchestra in una travolgente cavalcata, in una sorta di tempesta di vento che spazza via e purifica rendendo limpido il cielo, anticipando momenti che riascolteremo nelle successive sinfonie, in particolar modo nella quinta e nella settima.
L’iniziativa di proiettare un estratto della miniserie televisiva Leopardi – Il poeta dell’infinito diretta dallo stesso Sergio Rubini ha inoltre arricchito la serata, suggerendo nuovi spunti per avvicinarsi al pensiero e alla vita del poeta recanatese. Come una sorta di bis, in chiusura della serata, Rubini ha recitato L’Infinito, che ci è sembrato qui un canto universale, capace di toccare corde intime e collettive. A nostro parere, inoltre, è stato evidente come la potenza dei versi di Leopardi, a differenza dei versi di Rückert, non necessiti di alcun accompagnamento musicale per esprimere la loro intrinseca armonia, che si staglia autonoma e autosufficiente.
Ciò non toglie che la serata ha rappresentato un dialogo tra arti che, senza mai sovrapporsi, hanno saputo illuminare nuove prospettive sul pensiero leopardiano e sulle sue risonanze nella musica. Una celebrazione del genio di Leopardi, capace di parlare al pubblico contemporaneo con la stessa forza e lucidità con cui aveva osservato il mondo nel suo tempo.