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Opera di Roma. Jenůfa, mai piu', disse il Corvo
La scorsa settimana è terminata la trilogia Janáček al Teatro dell'Opera di Roma: tre opere in tre anni dedicate al compositore ceco che ha rivoluzionato la psicologia e la musica della Mittel Europa sia in senso armonico sia in termini di indagine psicoanalitica, in particolare delle sue protagoniste femminili. Così si conclude con Jenůfa di Leoš Janáček, dal 2 al 9 maggio diretta dal conosciutissimo Maestro slovacco Juraj Valčuha, al suo debutto al Costanzi, insieme alla regia premiata agli Olivier Awards di Londra a firma Claus Guth.
Dramma della Moravia rurale, bigotta e piena di pregiudizi, Jenůfa è stata scritta tra il 1894 e il 1903, e proviene da uno dei racconti della scrittrice ceca Gabriela Preissová Její pastorkyňa (La sua figliastra, in italiano), che pone l'accento sulla figura della madre adottiva di Jenůfa con lo stesso titolo, ovvero "la sua, di lei", acquisendo lei come protagonista insieme alla giovane traviata da un amore fatuo e corrisposto solo superficialmente dal signorotto del mulino, Števa. Fin dall'inizio sulle scene di Michael Levine si materializza una prigione, con listelle di legno scuro fitte fitte che si alzano lentamente per far intravedere la scena delle donne ai fusi. La protagonista Jenůfa appare subito in blu scuro che sembra un funereo nero, a rivelarci immediatamente il dramma di essere incinta di un ubriacone come Števa che festeggia il suo mancato arruolamento cogli altri uomini per la guerra.
L'atmosfera è lugubre e le altre donne che giungono sono la nonna Buryjovka e la madre Kostelnička, sagrestana della chiesa di un paesino della Slovacchia morava, anche lei sottoposta a maltrattamenti dal marito, e che sinceramente li vorrebbe evitare maldestramente alla figlia, causando un danno ancora piu' grave. L'infanticidio è alle porte fin dalle scene nella "prigione" della camera da letto di Jenůfa, dove nasconde il bimbo nato dalla relazione nascosta alla società contandina che la condannerebbe subito in mancanza di un matrimonio, e senza appello. Le scene sono molto semplici e simboliche, con un corvo antropomorfico che si aggira intorno alla casa "gloom and doom", diremmo in inglese (oscurità e rovina). Ci ricorda tanto la piu' nota poesia lunga del genio americano Edgar Allan Poe (1809-1849), The Raven, con il suo ripetere: "Nevermore, quoth the Raven" (Mai piu', disse il corvo). Un altro personaggio però cambierà le sorti della fanciulla, sebbene sfregiata da lui, innamorato di lei e geloso della sua relazione, Laca Klemeň riuscirà a convincerla ad amarlo, non senza l'intervento prodigioso di Kostelnička, che persuade lui a sposarla poco prima del terribile assassinio del bimbo.
Una tragedia che ne racchiude tante; un finale infelice a prescindere, con una crescita dell'eroina femminile verso un'accettazione dei propri limiti in seno ad una società dall'"occhio piccolo piccolo e nero come un corvo". E' probabile che lo stesso compositore voglia rimproverare questo ai suoi detrattori, ed all'amata patria, cui tanto è rimasto legato rappresentandola esattamente com'era. Una musica però altamente foriera di innovazione, nelle linee armoniche, nella coloratissima danza del primo atto, in senso musicale e per i lussureggianti costumi quasi al termine dell'opera, curati dalla tedesca Gesine Völlm.
Questa produzione, in collaborazione con Royal Opera House di Londra, annovera una delle voci culto per la protagonista, Karita Mattila, che in questo caso interpreta la matrigna; mentre della giovane figlia adottiva è è interprete Cornelia Beskow, soprano svedese lirico-drammatico trascinante per i colori vocali; entrambe debuttano all'Opera di Roma. La grandissima Mattila commuove per la profondità di interpretazione e la drammaticità della voce nelle scene centrali. La Beskow ben ritrae una giovane ingenua che non riesce, se non alla fine, a reagire di fronte al disonore ed al tradimento, nonchè alla violenza subita. Il tenore Robert Watson, anche lui per la prima volta sul palco dell’Opera di Roma, gioca bene la parte del degenerato Števa Buryja. Laca Klemeň viene cantato da Charles Workman, che è tornato al Costanzi dopo aver interpretato Boris Grigorijevič nella Káťa Kabanová di Janáček nel 2022. Il mezzosoprano italiano Manuela Custer è invece la vecchia Buryjovka, che fin dall'inizio convince, descrivendoci la crudezza della situazione in cui si muovono i personaggi.
Il regista Claus Guth, di Francoforte e laureatosi in regia teatrale a Monaco di Baviera, l'ho incontrato per la prima volta al Teatro Real di Madrid nel 2017: riesce a muovere le scene in modo catartico, rendendole simbolico piatto da cui abbeverarsi per rileggere il dramma attraverso la cartina di tornasole che indica attraverso il movimento scenico quanto gli oggetti. Allora era Silla di Mozart, ora è Jenůfa, che ebbe la sua prima rappresentazione assoluta al Teatro Nazionale di Brno il 21 gennaio 1904, dovendo aspettare la fine dell'ostracismo verso di lui e le sue opere a Praga nel 1916.
Nato a Bratislava, il direttore Juraj Valčuha è al suo debutto al Costanzi e rende questa versione eccellente nella sua esecuzione, avendo condotto l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma in modo encomiabile e coinvolgente anche per i maestri del Costanzi. Insieme naturalmente al Maestro del Coro Ciro Visco ed il magnifico Coro da lui guidato.
Teatro piuttosto pieno e grande successo per un'opera difficile cui spetta il riconoscimento di un pubblico vasto ed unanime nella sua accoglienza.