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E ora parliamo di Kevin. La superficie patinata della normalità
Il titolo originale di E ora parliamo di Kevin – We need to talk about Kevin – è la frase che Eva Khatchadourian (Tilda Swinton) è sul punto di dire a suo marito Franklin (John C. Reilly) dopo ogni giornata trascorsa insieme a suo figlio. E' il bisogno di raccontare la serie di umiliazioni e crudeltà che Kevin (Ezra Miller) le infligge quotidianamente. Ma è anche, in senso più metaforico, l'esigenza da parte di una società evoluta di affrontare i demoni che si annidano sotto la superficie patinata della normalità.
Scrittrice di successo con la passione per i viaggi, Eva è costretta ad abbandonare le sue ambizioni in seguito a una gravidanza inattesa. L'accudimento di suo figlio Kevin diventa la sua unica occupazione e ben presto il loro rapporto si rivela problematico e conflittuale. Il bambino dà segni di vero e proprio odio nei confronti della madre, sentimento accuratamente nascosto agli occhi del padre ma continuamente espresso attraverso gesti calcolati e parole affilate.
Nemmeno la nascita della piccola Celia sembra placarlo. Anzi, dà modo a Kevin di sperimentare ogni giorno torture psicologiche sempre più efferate finchè un giorno la sua sete di sangue lo porta a compiere una vera e propria strage trafiggendo col suo arco un gruppo di ragazzi rinchiusi nella palestra della scuola, non prima di aver trucidato padre e sorellina. Per Eva è la spinta che la fa precipitare in un baratro ancora più buio e angosciante, fatto di solitudine e insulti da parte dei familiari delle vittime. L'unica luce che la tiene in vita è l'assurda speranza un giorno di conquistare finalmente l'amore di Kevin.
Tratto dall'omonimo romanzo di Lionel Shriver, il film è il terzo lungometraggio della regista scozzese Lynne Ramsay, che dopo i pluripremiati Ratcatcher (1999) e Morven Callar (2002), e il progetto fallito di realizzare la trasposizione cinematografica di Amabili Resti (firmata invece da Peter Jackson), scava nei meandri psicologici dell'odierno ed eterno legame madre – figlio, “sporcandosi le mani” di sangue e violenza, non tanto quella fisica (messa volutamente fuori campo) quanto quella (molto più devastante) legata alla psiche.
Il sangue non si vede mai. Ma viene ugualmente sprigionato attraverso l'uso sapiente del colore rosso per connotare simbolicamente oggetti e contesti. Rosso è il fiume di pomodoro nel quale si rotola Eva nel viaggio in cui concepì Kevin. Rossa è la palla che lancia al figlio nel vano tentativo di innescare un gioco. Rossa è la vernice con cui le hanno imbrattato casa e automobile. Rossa è la tenuta da carcerato di Kevin nell'abbraccio conclusivo.
Sfumature diverse dello stesso significato: la colpa. Quella di una madre borghese che non vorrebbe concepire un figlio mettendo a repentaglio la propria carriera e libertà. Che lo detesta per questo, senza poter fare a meno di accudirlo. Colpa che come un piccolo seme si deposita sul fondo dell'animo di Kevin e cresce col tempo, divorandolo come un virus. Trasformandolo in un mostro affamato di odio e morte. Colpa che diventa quella in assoluto più grande: quella per aver ucciso. Sarà Eva però a pagarne il prezzo con la solitudine e l'umiliazione.
Il film, aperto a varie interpretazioni in chiave psicoanalitica e pedagogica, si fa anche allegoria di una società incapace di affrontare i propri tabù, barricata dentro riti familiari e menzogne quotidiane. Kevin è perciò oggettivizzazione motruosa ed estrema del non detto, dell'odio represso e dei cattivi pensieri che non trovano espressione nel vocabolario borghese. E' il male che pulsa dietro la calma apparente. E' il virus che si nasconde dentro il CD intitolato “I Love You” che Eva trova nella maniacalmente ordinata e pulita camera del figlio. E' tutto ciò che non si riesce a spiegare razionalmente e che per questo ci fa paura. E' tutto ciò che va oltre la logica, come l'abbraccio finale che riconcilia indissolubilmente vittima e carnefice.