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Ostia antica. Fedra e la maestà del potere
L'11 settembre 2016 è andata in scena al Teatro romano di Ostia antica la Fedra di Seneca, tragedia romana ispirata all’Ippolito portatore di corona (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος/Hippólytos stephanophóros) e all’Ippolito velato (Ἱππόλυτος καλυπτόμενος/Hippólytos Kalyptómenos) di Euripide, per la regia del napoletano Carlo Cerciello, con Imma Villa nel ruolo di Fedra, Bruna Rossi in quello della nutrice, Fausto Russo Alesi nel duplice ruolo di Ippolito e Teseo e Sergio Mancinelli nel ruolo del Messaggero.
Fedra viene qui ritratta come un'esponente dell’aristocrazia cretese, ma ovviamente nella sua dimensione arcaica, quando regnava una civiltà ctonia e tellurica, ma che già aveva vissuto il passaggio da un dominio matriarcale a uno patriarcale. Sicché sinistramente sulla scena incombe il rito tragico del sacrificio umano e dominano le potenze del fato che trascinano la sua famiglia nella rovina.
Fedra da un lato, in quanto figlia di Minosse e Pasifae, è sorella di Arianna, moglie prima di Teseo e poi del dio Dioniso, ma, dall'altro lato, è anche sorellastra del mostro mezzo uomo e mezzo toro, Asterione, noto anche come Minotauro, nato da un accoppiamento innaturale tra la regina Pasifae e il toro bianco divino inviato a Minosse da Poseidone, e che il re avrebbe dovuto sacrificare in onore del dio. Queste vicende ci fanno capire che Fedra (nome proprio che deriva dall'aggettivo φαιδρός [phaidrós], in greco "splendente") si presenta come espressione di una civiltà “barbara” rispetto al mondo greco: non a caso nel mito emerge l'antitesi tra la società primitiva dell'antica Creta, in cui prevalgono i riti magici e sciamanici, e la società della Grecia micenea, già ordinata e gerarchizzata, rappresentata dall’eroe Teseo.
Le forze del disordine e della trasgressione andranno quindi incontro alla sconfitta, grazie alla cultura espressa dalla nuova società, che farà loro perdere l'energia caotica e travolgente di cui sono interpreti. Ma Fedra rimane un personaggio-simbolo che supera i confini del contesto storico in cui la tragedia è ambientata, divenendo l’emblema della passione amorosa e di una concezione della femminilità che a causa delle costrizioni sociali non poteva esprimersi liberamente. Nella versione del mito prediletta da Seneca, che viveva in prima persona i tempi cupi del tiranno Nerone, Fedra diventa colpevole in modo duplice: perché adultera e perché corrosa da una passione inesauribile, che la condurrà ad assumere su sé stessa la responsabilità della propria morte, vista come unico riscatto possibile.
Peraltro, pur rispecchiando una civiltà di primitiva barbarie, nel mito di Fedra agiscono potenti simbolismi e prefigurazioni di complesse teorie filosofiche. L'eroina è per così dire figlia del νόμος [nómos], la legge – incarnata nel padre, il saggio e giusto re Minosse –, e dell'ὄρεξις [órexis], il desiderio, simbolizzato dalla madre Pasifae. E si assiste all'unione di personaggi divini e personaggi umani che sono in qualche modo semidivini. Questa problematica fu ben evidenziata dall'antropologo britannico James Frazer nell'opera monumentale The Golden Bough (Il ramo d’oro), il quale osservò come la rivalità di Artemide e Fedra per l’affetto di Ippolito sembri riprodurre, sotto diversi nomi, quella di Afrodite e di Proserpina per l’amore di Adone. Fedra alla fine risulta essere una sorta di "doppio" di Afrodite: del resto, nella storia della tragica morte di Ippolito assistiamo alla vicenda di un giovane mortale e di bell'aspetto che sconta con la vita il breve rapimento di un amore divino.
La ricchezza concettuale del testo di Seneca non è casuale, giacché i grandi poeti tragici hanno sempre attratto l’attenzione dei filosofi, i quali hanno riscontrato nelle loro opere la concretizzazione di temi universali, come si può anche constatare nei drammi di Shakespeare. E non a caso Seneca univa nella sua persona la doppia veste di filosofo stoico e di tragediografo.
In Euripide e Seneca i personaggi mitologici si trasformano in eroi del presente. Ecco perché la tragedia appare particolarmente ancorata alle mura domestiche, piuttosto che alla scenografia della natura: circostanza che nello spettacolo di Ostia Antica subisce però una trasformazione. L'apparato scenografico, infatti, sontuoso e dalle coloriture orientaleggianti, proietta i personaggi in una dimensione dove assistiamo al dispiegarsi del potere umano, quasi metafora di quello divino.
Anche la recitazione degli attori asseconda quest'idea. Imma Villa dà di Fedra una versione maestosa, in cui il pathos si effonde con toni quasi melodrammatici, in questo più vicina allo spirito moderno che a quello di Seneca o a quello di Euripide. Fausto Russo Alesi interpreta sia Ippolito sia Teseo, quasi a voler simboleggiare l'unione degli opposti, della vittima e del carnefice, e perfino del padre con il figlio.
La tragedia è ambientata a Trezene, dove Teseo, padre di Ippolito e re di Atene, si trova in esilio perché deve scontare la pena per l'omicidio dei figli di Pallante. La dea Afrodite nel frattempo decide di consumare una sua vendetta ai danni di Ippolito perché il figlio di Teseo appare dedito alla caccia e al culto di Artemide, che è la sua rivale. Al fine di realizzare il suo progetto, stimola la matrigna Fedra perché si accenda di una passione insana per il figliastro. Ed è solo la nutrice che riesce a carpire a Fedra questo increscioso segreto, preoccupata per la condizione di angoscia e di depressione della donna. Le consiglia allora di assumere un filtro magico, cercando poi un colloquio chiarificatore con Ippolito: ma il figlio per tutta risposta la insulta. Dopo essere venuta a conoscenza dell'intera vicenda, medita il suicidio. Ippolito a quel punto, turbato e preso da una sorta di furore antifemminile, dichiara di non voler rimanere sotto il tetto della matrigna, in assenza del padre.
Fedra realizzerà poi il suo sciagurato proposito, suicidandosi e lasciando a Teseo una sorta di testamento in cui accusa Ippolito di aver abusato di lei. Teseo a questo punto cerca di ottenere la vendetta di Poseidone a cui chiede di annientare Ippolito, che viene comunque bandito da Atene, nonostante cerchi di dimostrare protesti la propria innocenza. Dopo essersi allontananato dalla città ed aver chiesto a Zeus di far prevalere la verità, viene travolto da alcuni cavalli, terrorizzati da un immane mostro marino inviato da Poseidone. Viene riportato indietro da una lettiga, su cui giacciono le sue membra disperse. Prima della tragedia però perdona il padre. A quest'ultimo non resta che piangere la propria sorte, e ricomporre il corpo del figlio fatto a pezzi, ordinando ai servi di gettare il cadavere di Fedra in un fossato.
Come ha osservato Ettore Paratore, per Seneca il nocciolo della tragedia non è costituito né dallo stimolo a reintegrare la scissione tra cielo e terra, tra persona umana e legge divina (come in Eschilo e Sofocle), né dalla constatazione dell’impossibilità di tale reintegro (come in Euripide), bensì dal fatto che le passioni dipendano esclusivamente dalla psiche umana, come aveva messo in evidenza l’etica stoica, di cui Seneca è uno dei massimi teorici.
Gli stoici credevano che la ragione e le leggi della natura debbano sempre governare la condotta umana. Nel compiere la scelta consapevole di perseguire la sua passione peccaminosa per il figliastro, Fedra turba le leggi della natura a un livello tale che, secondo la Weltanschauung stoica di Seneca, solo la sua morte può ristabilire l'ordine cosmico. Allo stesso modo, Ippolito avverte che la lussuria di Fedra lo ha corrotto, al punto tale che egli non desidera più vivere in un mondo non più governato dalla legge morale.
Ippolito arriva quindi a negare i vincoli sociali isolandosi e rendendo la sua esistenza morale instabile, soprattutto a a causa delle avances innaturali della matrigna. Non è privo di significato, peraltro, il fatto che le passioni assumano una dimensione sociale. Come ha rilevato Francesco Orlando (riferendosi alla Phèdre di Jean Racine, ma l’osservazione si può applicare anche alla Phaedra di Seneca), “lo scandalo coinvolge immediatamente nel processo criminale intimo, nel ritorno del represso [espressione freudiana: die Wiederkehr des Verdrängten], gli altri; e il coinvolgimento degli altri a sua volta incoraggia e rende irreversibile il processo intimo”.
La dimensione sociale del dramma è anzi ancora più evidente nella tragedia antica rispetto a modelli moderni, come l’Otello di William Shakespeare o il Tristano e Isotta di Richard Wagner. Si tratta dell’effetto di quella “civiltà della vergogna”, solo gradualmente sostituita dalla “civiltà della colpa” (Shame-Culture vs Guilt-Culture), su cui ha messo giustamente l’accento il grande filologo Eric Dodds (The Greeks and the Irrational, 1951). E più di tutte sono le donne che subiscono non solo i colpi avversi del fato, ma anche le azioni perfide degli altri esseri umani.
Da rilevare che le scenografie di Cerciello, caratterizzate dalla ricchezza dei costumi e da un moderato "citazionismo" orientaleggiante, mettono particolarmente in luce la maestà e la solennità del potere. Il coro indossa addirittura vestiti tipici del teatro giapponese: esso non esprime direttamente passioni, ma si esprime con ideogrammi gestuali, per così dire, che vanno interpretati. E anche le musiche, ritmate e incalzanti, pur non trasformando certo la tragedia in una sorta di musical, scandiscono bene i momenti più drammatici della vicenda.