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Piazza Fontana 1969. La Madre di tutte le stragi
Il Romanzo di una strage (scritto con il consolidato binomio Rulli e Petraglia) ricostruisce l’attentato che inaugurò la strategia della tensione in Italia, quando, il 12 dicembre 1969 a Milano, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, esplode una bomba.
In tutto 17 morti e moltissimi feriti. Nello stesso momento, scoppiano a Roma altre tre bombe, un altro ordigno viene trovato inesploso a Milano. E’ evidente che si tratta di un piano eversivo. La Questura di Milano è convinta della pista anarchica, ci vorranno molti mesi prima che la verità verrà a galla rivelando una cospirazione che lega ambienti neonazisti veneti a settori deviati dei servizi segreti.
Dopo il fermo di alcuni personaggi dell’ambiente politico (di stampo anarchico) milanese, tra cui Giuseppe Pinelli (Pierfrancesco Favino), il commissario Luigi Calabresi (Valerio Mastandrea) si troverà a far fronte durante le indagini a situazioni alquanto contraddittorie, diventando sempre più consapevole della connessione esistente tra i movimenti di destra e i poteri economici e statali.
Ascoltiamo come, dalle parole che il 14 Novembre 1974 Pier Paolo Pasolini pubblicò in un articolo apparso sul Corriere della sera dal titolo Il romanzo delle stragi, si palesavano i rapporti tra l’apparato statale e le stragi (ancora senza colpevoli) di quegli anni, tra le quali Piazza Fontana, la madre di tutte.
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Senza indugiare in ideologismi di parte, con una narrazione asciutta e anche molto didascalica (quasi a voler informare le più giovani generazioni), Giordana riesce nell’intento (complicatissimo) di raccontare la (sua) verità storica, ricostruita con un rigore filologico eccezionale, che contraddistingue la cifratura stilistica del regista fin dal suo esordio con Un delitto italiano, proprio su Pasolini e su quanto quel delitto fosse del tutto insoluto ed imputabile a più persone, non solo a Pelosi.
Forte della sua coscienza intellettuale, l’autore non indugia mai in quadretti biografici assai (più) congeniali al registro stilistico della fiction, optando invece per una rappresentazione storica il più possibile lucida e credibile degli avvenimenti trasposti, operazione quanto mai ardua e stratificata. E proprio in virtù di un approccio così rigoroso, risulta difficile essere partecipi dell’universo corale prodotto dall’intreccio narrativo, col risultato di non immedesimarsi praticamente in nessuno dei personaggi.
Eccezionali le interpretazioni di Favino (Pinelli) e Gifuni (Moro), mentre forse fin troppo controllata e (insolitamente) “ingessata” quella di Mastrandrea nel ruolo di Calabresi (la cui interpretazione ha suscitato perplessità proprio da parte della moglie dell’allora commissario e del figlio, Mario Calabresi, oggi direttore de La Stampa).
Con questo film Marco Tullio Giordana si candida ad entrare a pieno titolo nel solco di quella tradizione nazionale fortemente radicata nel cinema politico di Elio Petri e nella ricerca storica di Pier Paolo Pasolini.