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Pietroburgo di Andrej Belyj. Una città a prova di visione
Una grande città come San Pietroburgo, se attraversata dagli occhi di un poeta, diventa luogo formicolante di eventi (reali e/o immaginari) nonchè uno spazio saturo di possibilità incredibili. Allo stesso modo che in Puškin, Gogol e Dostoevskij, anche qui troviamo una miriade di incantesimi, accadimenti inverosimili, allucinazioni, inganni e deliri evanescenti. Se Mosca è la capitale politica e, da sempre, il centro strategico della Russia; San Pietroburgo ne è l’ombra letteraria, un vero e proprio “mito”, come hanno rilevato i maggiori studiosi. Lo è certamente in questo romanzo di Andrej Belyj, più conosciuto da poeta simbolista, ma non meno dotato come prosatore.
Pietroburgo, infatti, viene a giudizio unanime considerato il capolavoro dello scrittore. Nella mente di Belyj, questo romanzo doveva rappresentare la seconda parte della trilogia Oriente e Occidente, inaugurata nel 1910 da Il colombo d’argento. L’opera (aperta e chiusa da un prologo e da un epilogo) è divisa in otto capitoli, ognuno dei quali porta in esergo alcuni versi dell’opera di Puškin, Il Cavaliere di Bronzo.
La vicenda è ambientata durante la rivoluzione del 1905, nel mezzo della guerra russo-giapponese e nel pieno di tumultuosi sconvolgimenti sociali (atti di terrorismo, scontri di piazza e scioperi). Il romanzo segue il percorso parallelo di un padre e un figlio: il giovane studente di filosofia Nikolaj Apollonovič Ableuchov viene incaricato dal terrorista Dudkin di uccidere appunto il proprio genitore. Questi è il grande burocrate Apollon Apollonovič Ableuchov, senatore dai discorsi verbosi e dall’apparenza fisica insignificante. Da lui si irradia quell’intreccio di burocrazia e razionalismo che viene considerato il dono avvelenato dell’Occidente alla Russia e che troverà la sua celebrazione funesta con il regime sovietico.
Pubblicato a puntate tra il 1913 e il 1914 sull’almanacco della casa editrice simbolista Sirin, Pietroburgo deve il titolo al poeta Vjačeslav Ivanov che volle evocare nel nome della città l’eroe principale del romanzo. Appena uscita, l’opera fece subito scalpore: Aleksandr Blok immediatamente comprese l’importanza del testo del quale sottolineò la decisa visionarietà e l’immaginario meccanico.
Belyj, frequentatore di circoli occultisti e conoscitore dell’antroposofia di Rudolf Steiner, è certamente stato il più originale e fantasioso tra gli simbolisti russi. Lo stile di Pietroburgo si distingue per la sua rivoluzionaria espressività: la città si rivela la scena di un cabaret metafisico quasi fosse stato immaginato da uno Jodorowsky in stato di grazia e di oscillazione tra la comicità absurde di Ionesco e l’astrazione. Comico e mistico insieme, antesignano di quello che sarà poco dopo, per esempio, uno scrittore come Max Jacob.
Il romanzo è un delirio e un incubo al tempo stesso. Puškin, Blok, Gogol e Dostoevskij, sullo sfondo, ne delimitano la visione. Angelo Maria Ripellino, da par suo, ne ricorda “l’astrattezza brumosa, gli zigzag cerebrali e le fiammate d’assurdo”, sia pure riferendosi al dramma che lo stesso autore ricavò dalla sua prosa.