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Pro Patria di Ascanio Celestini. Chi finisce in galera e chi in Parlamento
Annunciata al “Festival delle letterature” di Roma l’uscita per ottobre del nuovo libro di Ascanio Celestini dal titolo “Pro Patria” edito da Einaudi. Lo spunto di partenza è l’avventura che fu la Repubblica Romana del 1849: pochi mesi che bastarono a gettare i semi di quella che, un secolo dopo, sarebbe diventata la Costituzione italiana. Il protagonista è un detenuto dei giorni nostri. Nella solitudine della prigione, gli unici esseri umani con cui si rapporta sono un secondino detto l’intoccabile e un immigrato africano che dorme cinque minuti ogni ora.
Ma il detenuto ha un piano: preparare un discorso usando i pochi libri che l’istituzione carceraria gli ha permesso di consultare. Le parole di Pisacane, Cattaneo, Mazzini, Mameli, credute innocue dai suoi carcerieri, diverranno nelle sue mani il grimaldello col quale tentare di evadere, anche solo mentalmente. Perché quel Risorgimento era storia di lotta armata e galera, e ci sono due tipi di terroristi, quelli che finiscono in galera, e quelli che finiscono in Parlamento.
C.F.C. Buonasera Ascanio Celestini, si può considerare questa tua ultima opera letteraria come una ricerca antropologica sulla detenzione italiana di quest’ultimo secolo?
Si, per “Pro Patria” ho fondato il mio lavoro di scrittura sul rilevamento sul campo. Una serie di interviste dall’interno ai detenuti che stanno scontando la pena in carcere ma soprattutto a chi a quel mondo è appertenuto ed ora cerca di rifarsi un esistenza dignitosa fuori dalla cella. I miei riferimenti intellettuali sono stati i grandi antropologi degli albori, con le loro aspirazioni socialiste, fino a quelli attuali. Lo stesso Lombroso sosteneva che non fosse tutta colpa dell’individuo il fatto che arrivasse a commettere dei reati, ma c’era da considerare il contesto storico sociale in cui nasceva e le condizioni economiche e culturali dalle quali partiva. Poi tutto questo negli anni si è trasformato in un atteggiamento mostruoso nei confronti dei detenuti, arrivando a considerarli degli elementi irrecuperabili perché nati rotti, nati fatti male.
C.F.C. Cosa è cambiato oggi grazie all’evoluzione degli studi antropologici in materia?
Gli antropologici si sono presi la responsabilità dell’importanza dell’altro nella relazione, nell’incontro con l’altro. Parlando di contesti sociali svantaggiati, voglio intendere che chi non ha ricchezze materiali non è detto che sia del tutto povero. Si può essere ricchi di molte altre cose. Chi non vive in un suntuoso palazzo o in una villa lussuosa o in un attico al centro di Roma, non è per forza una persona che non ha una propria intensa vitalità e un posto e una famiglia da cui tornare.
C.F.C. Quale è stata la lezione dell’antropologia italiana del secolo scorso?
La lezione intramontabile è stata la ricerca sul campo di Ernesto De Martino che, attraverso le sue interviste e i suoi rilevamenti, ha dato voce al popolo e ha fatto irrompere l’esistenza della gente comune nella storia. De Martino partì con due lire in tasca verso il Sud, che era considerata una terra in gran parte sconosciuta, quasi primitiva, e si trovò dinnanzi una civiltà complessa, tutta da scoprire. Quando l’antropologo, nella sua “Terra del rimorso” si rese conto che nelle Università dell’epoca venivano considerati antichi e ancestrali riti comuninatri ancora così presenti e importanti in zone come il Salento, gli studiosi capirono l’importanza di quell’andare e vedere, che è qualcosa di cui abbiamo avuto un grande bisogno per capire civiltà geograficamente vicine ma culturalmente lontane. Lo sguardo degli studiosi subì un cambiamento radicale nei confronti di civiltà diverse dalla nostra, ma che potevano cominciare a fare il loro ingresso a pieno titolo nella storia della civiltà nazionale. Fondamentale per De Martino fu l’idea di non poter prescindere dalla prospettiva estetica di scendere sul campo, vedere e prendere in mano l’oggetto di studio, piuttosto che immaginarlo in maniera logica al di là del fatto che quell’oggetto esistesse o no.
C.F.C. Tornando al tuo libro “Pro patria” hai fatto ricerca sul campo in carcere attraverso interviste ai detenuti?
Nelle carceri ci sono stato il tempo strettamente necessario perché, nella relazione con il detenuto, ho riscontrato una grossa fatica del soggetto a parlare di sé e tu rimani quello che sta fuori, che entra come visitatore, con tanta attenzione ma, ai loro occhi, sei poco meglio che un turista. Con gli ex detenuti è stato più semplice perché ora sono liberi e la relazione era più alla pari. Una grossa bussola d’orientamento è stata Antigone che mette a disposizione tantissimo materiale di studi, poi ci sono una serie di editori che sono nati dentro il carcere come “Derive e approdi” di Sergio Bianchi o “Sensibili alle foglie” di Renato Curcio. Loro hanno fatto e stanno facendo un grandissimo lavoro di mappatura dei fenomeni e delle problematiche più urgenti da rilevare in un mondo penitenziario che versa in una situazione da tempo insostenibile. Sarebbe ridicola se non fosse vera.
C.F.C. Cosa è successo nel corso del secolo scorso, ci sono stati dei decenni in cui qualcosa nel carcere sembrava migliorare?
Nel passaggio fra gli anni ‘60 e gli anni ’70 la società, fuori e dentro il carcere, stava cambiando e stava prendendo coscienza dell’inutilità di quel meccanismo criminale istituzionalizzato. Poi ci si rese conto che era proprio da lì, dall’interno del carcere, dove i problemi erano più grossi ed evidenti, dove si era più vicini al tumore, che era possibile operare. Poi negli anni ’80 questa consapevolezza si è persa e siamo tornati indietro di decenni. Prima c’era qualche criminale, capi bastone che gestivano il carcere a nome dell’Istituzione, negli anni ’80 arrivano i camorristi che girano armati, le esecuzioni sommarie.
C.F.C. Quale è la situazione nel carcere oggi?
Oggi imperano droga e psicofarmaci e si gestisce la “non vita” del detenuto che rimane chiuso in cella 22 ore su 24. Il problema sta diventando soprattutto economico visto che non hanno più i soldi neanche per drogarli a dovere. Il sovraffolamento da anni ha superato ogni limite e i suicidi aumentano in maniera esponenziale.
C.F.C. Tu hai parlato di un vero e proprio lessico carcerario, ce ne puoi parlare?
Essendo uno sorta di stato straniero, c’è un vero e proprio gergo carcerario, un glossario preciso di termini, tipici del meccanismo di infantilizzazione del detenuto di fronte alle Istituzioni, come la domandina, che si usa per ogni richiesta scritta, o lo spesino, la lista per comprare il sopravvitto per cui ci vogliono i soldi. Solo chi lavora, il lavorante, ottiene una mercede che va nel peculio, una sorta di libretto. Chi non può accedere al sopravvitto si attacca al carrello e in carcere l’ultimo pasto è alle 5 del pomeriggio, per rimangiare bisogna aspettare la colazione che arriva solo alle 8 del mattino dopo. Poi c’è l’erbivoro, che ha mangiato l’erbetta, ossia il detenuto che ha l’ergastolo e non uscirà mai più dalla galera.
C.F.C. C’è pochissima informazione intorno a questi temi, sarà anche un problema culturale?
In questo Paese c’è una cultura giustizialista diffusa che mette paura. Questa cultura spinge a pensare che l’ergastolo ormai non se lo fa più nessuno ma, in realtà ci sono oltre 1000 detenuti che godono dell’ergastolo ostativo e che di galerà moriranno. C’è poi quello che canta, quello che fa l’infame, mandando in galera al suo posto qualcun altro, denunciandone il nome. Questo è consentito da un altro meccanismo assurdo che è quello del pentitismo. Mi viene in mente la storia di due fratelli, appartenenti alla criminalità della Basilicata, due basilischi che commettono un omicidio insieme. Poi il fratello più piccolo si pente, ma di un pentimento vero, senza andare alla polizia, e se ne va; va al Nord, cambia vita e ha una famiglia, una moglie, dei figli, finchè il fratello maggiore viene arrestato e fa il suo nome, condannandolo dopo un decennio all’ergastolo. Questo accade in Italia.
C.F.C. Cosa ne pensi del rischio di veder rimessa in discussione la Legge 180 del 1978?
Recentemente è stata rievocata la possibilità di riportare i pazienti psichiatrici seguiti dal Servizio territoriale di nuovo in realtà manicomiali. Si dice sia urgente e che non ci siano altre soluzioni mentre le alternative esistono. E’ sempre più facile oggi combattere contro queste grandi conquiste perché ci hanno infilato in testa che viviamo in un momento difficile per cui bisogna prendere decisioni immediate, a prescindere dal fatto che siano giuste o sbagliate. Siamo nell’era della fretta e del commissariamento, del commissario che può imporre soluzioni autoreferenziate e autoritarie, mentre la forza delle grandi conquiste è nella lentezza e nella condivisione.
C.F.C. La politica oggi può giocare un ruolo importante nell’affrontare questi temi?
Io non credo affatto nei partiti perché credo che la politica oggi sia solo un affare per professionisti. Il cittadino, si chiama cittadino perché si relaziona a pieno e direttamente con la città, non a mezzo servizio con i politici. Non credo nell’Europa, tanto meno nello Stato italiano. Movimenti come quello di Grillo sono interessanti perché hanno preso delle forme diverse dal partito convenzionale ma, mi chiedo, come potrà relazionarsi con una politica ancora fondata sui partiti? Se c’è una politica vera è quella delle sommosse in Val di Susa o, in questi giorni, il presidio a Riano contro la scelta infame di mettere due discariche a distanza di poche centinaia di metri l’una dall’altra su un terreno franoso dove c’è acqua a pochi metri. La politica si deve fondare su queste assemblee spontanee e su questi presidi organizzati e non sulla rappresentanza dei partiti o sui professionisti.