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Il processo di Viviane. Il divorzio negato in una società confessionale
Gett - The Trial of Viviane Amsalem (nella versione italiana semplicemente Viviane), un film per la regia di Ronit e Shlomi Elkabetz, uscirà nelle sale il 27 novembre 2014 ed è candidato agli Oscar per Israele. È una storia semplice e lineare: Viviane (interpretata dalla stessa regista Ronit Elkabetz), una donna israeliana, appartenente presumibilmente alla piccola-media borghesia, tenta invano di ottenere la “libertà” dal matrimonio dal marito Elisha (Simon Abkrian), dato che da diversi anni ormai ha abbandonato il domicilio coniugale.
Deve però fare i conti con le rigide leggi vigenti in Israele, ancora di stampo confessionale, dove il divorzio – unica possibilità per non essere messa al bando dalla società e ricostruirsi una famiglia, al punto tale che i figli nati fuori del matrimonio hanno lo statuto di mamzer, ossia di “bastardi” senza riconoscimento giuridico - viene ancora concesso da un’unica autorità: un tribunale rabbinico.
Spia evidente del fatto che, a onta del fatto che lo Stato di Israele sia una delle poche democrazie compiute del Medio Oriente, la discriminazione delle donne è ancora un fenomeno diffuso: infatti, nello Stato ebraico non esiste il matrimonio civile e la legge religiosa sancisce che soltanto il marito può concedere la separazione. Il diritto religioso governa il matrimonio a prescindere dalla comunità di appartenenza dei coniugi e dal fatto che siano religiosi osservanti o completamente laici, al punto tale che quando la donna pronuncia il fatidico “sì” viene considerata come potenzialmente privata del cosiddetto “gett”, ossia del diritto di divorziare, attribuito solo al marito (norma che ricorda quella del Codice napoleonico francese, risalente però al 1804 e che comunque ammetteva in casi limitati il diritto di chiedere il divorzio da parte della donna).
Elisha ha una determinazione intransigente nel voler riconquistare la propria indipendenza, ma deve scontrarsi con la protervia e l’ostinazione del marito e con il ruolo ambiguo dei giudici, solo apparentemente super partes. Il film si propone poi come terza “puntata” di una serie con due precedenti, To Take a Wife e Seven Days, antefatti di un processo di quasi cinque anni, nell’ambito del quale la donna viene ripetutamente sollecitata a continuare ad “amare” un uomo con cui la convivenza è ormai impossibile, tant’è vero che di fatto i due vivono separati.
Il tribunale stesso, con la sequenza di testimoni che si alternano in un via vai estenuante, solo apparentemente rispetta la volontà di Viviane, perché in realtà i giudici sembrano dare più importanza alle dichiarazioni di Elisha (che pure non la ama più) che alla ferma determinazione della donna, la quale desidera soltanto una vita normale. I rabbini, in realtà, sostengono di fare tutto il possibile per aiutare la donna, ma nel corso delle udienze a porte chiuse le cose spesso si svolgono ben diversamente, perché considerano sacro dovere fare di tutto per preservare il nucleo familiare ebraico e sono quindi alquanto refrattari ad accordare ai singoli individui, specialmente se di sesso femminile, il diritto di sciogliere il matrimonio rispetto al dovere religioso.
La vicenda viene raccontata con ritmi lenti e con un concentrarsi sui semplici e scarni ambienti del tribunale. I dialoghi e gli sguardi dei personaggi sono volutamente statici e spesso semplicemente allusivi. Il punto di vista non è mai quello del regista che osserva, bensì quello dei protagonisti, sicché la macchina da presa è sempre posizionata dall’angolazione di uno dei personaggi mentre osserva un altro. Ne consegue che un personaggio che non viene guardato da un altro personaggio sostanzialmente non è visibile. I due registi raccontano la storia attraverso il prisma sfaccettato delle persone presentate nello spazio di fronte agli spettatori: un punto di vista soggettivo in un luogo che si presume sia oggettivo e imparziale.