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Il restauro di Tempi Moderni. La grande attualità di Chaplin
Proseguendo con la programmazione, soprattutto nelle sale d'essai nazionali, di classici del cinema restaurati, lo scorso dicembre è stato il mese dedicato al capolavoro di Charlie Chaplin del 1936, Tempi moderni, uno dei grandi film senza tempo della storia della Settima Arte che, a distanza di ottant'anni dalla sua prima uscita americana, continua ad essere straordinario per la sempreverde attualità che testimonia.
La pellicola, quasi completamente priva di sonoro, è stata restaurata a cura della Cineteca di Bologna, in collaborazione con Criterion Collection e, oltre al ripristino delle celebri colonne sonore del 1935 composte dallo stesso Chaplin e dirette da Alfred Newman, per la prima volta è stata presentata a livello mondiale con una nuova registrazione: si tratta di quella eseguita nel 2006 dall'Orchestra NDR Radiophilarmonie diretta da Timothy Brock in co-produzione con CPO, con una forza espressiva che rispetta quella autentica, accompagnando interamente gli ottantatre minuti di durata del film.
Il celebre personaggio di Charlot – che nel cinema di Chaplin è simbolo del singolo individuo che deve muoversi in una società complessa – in questo film, dopo le altrettanto famose comiche degli anni '10, viene immerso nella realtà contemporanea dello stesso regista e degli spettatori: il terribile periodo della Grande Depressione, che determinò una crisi sociale senza precedenti, in un contesto in cui certezze e prospettive erano già state provate duramente dal primo conflitto mondiale.
Il protagonista chapliniano, com'è noto, lavora in una fabbrica che appare più come un inferno, alla stregua del tremendo e maestoso Moloch di “Metropolis” di Fritz Lang, ma privato dei suoi tratti simbolici: Charlot è un operaio e, come molti altri compagni, è addetto ad una catena di montaggio. L'orario lavorativo è organizzato e velocizzato attraverso ordini impartiti da una voce metallica allo scopo di perseguire un profitto sempre maggiore, al punto da testare uno strano macchinario: una sorta di gabbia per automatizzare l'alimentazione degli operai senza dover interrompere la produzione durante la pausa pranzo.
Significativa per rappresentare l'alienazione del lavoro operaio e della catena di montaggio è la celeberrima scena in cui Charlot rimane quasi inghiottito tra i grandi ingranaggi industriali, uscendone “contagiato” nell'anima e nel corpo tanto da generare lo scompiglio nella fabbrica, poiché incapace di controllare normalmente i propri movimenti, diventati anch'essi meccanici, ripetitivi e distruttivi.
Fuori dal luogo di lavoro, anonimo poiché esso stesso simbolo di tutti gli altri simili, la macchina da presa si sofferma sui forti tumulti cittadini contro la crisi economica e sociale che ha determinato il licenziamento di molti operai, tra cui il padre della protagonista femminile, la Monella (Paulette Goddard) – perfetto corrispondente femminile del personaggio chapliniano – che, nell'estrema povertà, è costretta a rubare il pane per sopravvivere.
Anche la condizione di questo personaggio e della sua famiglia è emblematica: suo padre rimane ucciso nei tafferugli con la polizia, che aveva finito per colpire uno qualunque dei numerosi manifestanti, e la ragazza, affidata con le sorelle minori ai servizi sociali, fugge per non sentirsi limitata più di quanto già lo sia per la propria condizione.
La giovane, mossa dalla stessa vitalità degli umili che contraddistinque anche il personaggio chapliniano, si aggrappa alla speranza di libertà e di una futura felicità che l'incontro con Charlot la spinge a perseguire, affrontando con forza i mille accidenti che capitano loro e, soprattutto, allentando le catene di una società complessa e contraddittoria, che propone i servizi sociali in casi di estrema necessità ma non comprende gli umili, scambiandoli per criminali. I due, che diventano simbolo di una qualsiasi coppia o nucleo familiare alla ricerca della felicità, devono fare i conti con la difficoltà di un vero inserimento nella società del lavoro, dove risulta difficile innestarsi senza rimanere fisicamente straniati dal predominio delle macchine, ma anche di trovare una casa dignitosa in cui vivere e rifugiarsi, che non sia percepibile solo nei sogni ad occhi aperti.
«Tempi moderni è il film del Ventesimo secolo», ha scritto recentemente Peter Von Bagh, studioso, critico e cineasta, dal 2001 direttore artistico del festival Il Cinema Ritrovato, scomparso il settembre scorso. Un'affermazione che racchiude la grandezza di questo film, tanto significativo quanto simbolico nel mostrare contenuti che vanno oltre rispetto alla realtà storico-sociale ad esso coeva, arrivando ad oggi: un'energia e una potenza il cui segreto risiede nella composizione di tratti di grande realismo e di simbolismo, fino a sfiorare la poesia.
Un capolavoro della storia del cinema che riesce ancora a colpire lo spettatore odierno nonostante li separino ottanta anni di avvenimenti e sviluppi, accidenti e regressioni: al di là dello statuto quasi totalmente “muto” del film, le tematiche narrate e simboliche insieme alla potenza visiva ed espressiva delle immagini rendono questa pellicola un sublime prodotto del suo tempo, ma anche indimenticabile e dal sapore mitico.