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Il riscatto di Salvatore Striano. La recitazione rende liberi
Martedì 4 giugno, alla Casa del Jazz di Roma, la regista Giovanna Taviani, figlia di Vittorio e nipote di Paolo Taviani, ha presentato il documentario Il riscatto, prodotto da La conchiglia di Santiago, già in concorso a Cannes 2013 nella sezione Short Film Corner e dedicato alla vicenda di Salvatore Striano, ex-detenuto del carcere di Rebibbia, protagonista del film Cesare deve morire (2012).
L'evento, organizzato con la collaborazione di Libera – associazioni, nomi e numeri contro le mafie, ha visto la partecipazione, oltre che dello stesso Striano, di Fabio Cavalli, regista della compagnia teatrale di Rebibbia, e del giornalista e scrittore Attilio Bolzoni, autore di numerose pubblicazioni sulla mafia, fra cui il libro Il capo dei capi (scritto con Giuseppe D'Avanzo), da cui è stata tratta la serie-tv mediaset.
Il documentario, girato fra Arezzo e San Miniato, racconta il riscatto di Salvatore Striano attraverso l'esperienza come attore durante la sua detenzione nel carcere di Rebibbia. “Shakespeare è il mio San Gennaro”, ha confessato l'attore napoletano, non senza un velo di emozione, durante il dibattito che ha seguito la proiezione. Dunque la cultura e, in particolare, il teatro e il cinema, come dimostra la sua vicenda personale così come quella di decine di altri ex-detenuti in tutta Italia, offrono una finestra sul mondo e l'opportunità attraverso tale sguardo di riappropiarsi del senso della propria vita, smarrito fra i vicoli della criminalità e gli angoli bui della galera. L'etimologia stessa della parola riscatto rimanda a questo concetto: dal latino reexcaptare, che significa recuperare un bene smarrito (la libertà) pagando un prezzo. E il prezzo che ha pagato Salvatore, detto Sasà, è stato la solitudine e la paura, come evocano le scene del documentario girate all'interno del carcere di Arezzo. Da qui, la narrazione delinea un percorso parallelo ma tematicamente congiunto fra la storia personale di Sasà e quella dei due partigiani aretini crivellati dai fascisti il 15 giugno del 1944 a seguito di un tentativo di fuga.
La fuga, quando una cella minuscola diventa la tua sola casa, condivisa con persone di cui non sai nulla e di cui temi tutto, è un miraggio che ti uccide facendoti sopravvivere. In queste circostanze, l'arte, e in particolare il teatro, diviene l'unica fuga possibile per l'anima, l'unica luce in grado di illuminare la via verso la verità e, quindi, verso il riscatto. Ma la via è impervia come la scala di una torre antica, una torre come la Rocca di Federico II di San Miniato, che campeggia nella scena finale del documentario e che Sasà sale ripercorrendo metaforicamente la propria dolorosa ascesa verso la vita.
Ripercorrendo i luoghi della Toscana cari ai fratelli Taviani, fra cui soprattutto quelli della natia San Miniato, Giovanna Taviani traccia linee tematiche che uniscono il passato e il presente, secondo una continuità storica che, così come ci insegna l'arte, ha come obiettivo imprescindibile la verità. Una verità spesso dolorosa, come quella della strage di San Miniato, avvenuta nell'estate del 1944 – raccontata nel 1982 dai Taviani col film La notte di San Lorenzo – e di cui tutt'oggi non si hanno certezza riguardo ai responsabili.
Il dibattito infine, grazie anche agli interventi di Cavalli e Bolzoni, ha messo in luce le difficoltà e i gravi problemi che ruotano intorno al sistema carcerario italiano attuale, sempre più al di fuori della legalità perché al di fuori della giustizia e del rispetto della dignità del detenuto. Quello che, in definitiva, è trasparso dalle varie testimonianze, è stato da un lato la grande volontà di cambiamento che domina nelle carceri italiane, dall'altro però anche uno Stato sempre più assente e sempre più colpevolmente indifferente alla verità portata alla luce da vicende come quella di Salvatore Striano.