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Santa Cecilia. Dal periodo rinascimentale a quello classico con Pappano e Bollani
L’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia guidata dal Antonio Pappano ha proposto al pubblico un programma insolito ma affascinante, che ha riscosso il plauso entusiasta del pubblico presente e ha raggiunto l’apice nell’esecuzione del Concerto per pianoforte e orchestra n.23 K 488 di Mozart con Stefano Bollani.
Il programma è stato aperto da due composizioni di Giovanni Gabrieli (1554/1556- 1612), Canzon per sonar primi toni a otto voci e Canzon per sonar duodecimi toni a otto voci, non ancora eseguite nei programmi dell’Accademia. Nipote di Andrea e suo successore nella Cappella di San Marco, fu a differenza dello zio un grande innovatore. Le composizioni sono tratte dalla raccolta delle Sacrae symphoniae, che furono stampate a Venezia nel 1597 sotto la supervisione dell’autore che inserì nelle partiture le indicazioni delle dinamiche e degli strumenti per eseguirle. La Cappella di San Marco era sotto il controllo del doge non del patriarca, queste due composizioni strumentali sono la testimonianza della grandiosità delle cerimonie in San Marco, che avevano una duplice veste, religiosa sì ma maggiormente politica per celebrare la grandezza della Serenissima, già allora in declino.
Il temine Canzon per sonar dei brani deriva dalla musica vocale da qui la melodia, presente nelle composizioni, ma anche l’estensione dell’uso dei "cori battenti", che posti in punti diversi e elevati della basilica si rispondono e si raddoppiano, alla musica strumentale creando grandiosi e luminosi effetti sonori. Gli otto solisti quattro trombe e quattro tromboni sono stati posti dal maestro Pappano nella galleria 8 che sovrasta l’orchestra, ad evocare quella spazialità sonora tipica delle esecuzioni nella Basilica di San Marco. Calorosi applausi hanno salutato la fine della esecuzione che ha messo in luce la bravura dei componenti dell’orchestra ceciliana: Andrea Lucchi, Alfonso Gonzales Barquin, Ermanno Ottaviani, Romolo D’Ippolito trombe e Andrea Conti, Esteban Mendez, Roberto Basile, Francesco Chisari tromboni.
Il secondo brano in programma è stato il Concerto in si minore per quattro violini, violoncello, archi e basso continuo, n°10 tratto da L’Estro Armonico, composto da un altro grande veneziano Antonio Vivaldi. Ha la abituale ripartizione vivaldiana in tre movimenti e mostra il superamento del modello del “Concerto grosso” ideato da Arcangelo Corelli, i quattro violini solisti dialogano tra loro esibendo brillanti e funambolici virtuosismi in cui si affaccia anche il violoncello con irregolari interventi, il tutto non disgiunto da una luminosa cantabilità a cui partecipano gli archi e il basso continuo. L’arte di stupire di Vivaldi si dispiegò nella sperimentazione di soluzioni compositive dinamiche, ritmiche, timbriche e inaspettate dissonanze e questo concerto ne è una brillante testimonianza; non è un caso che Bach lo trascrisse per quattro cembali e orchestra. La bravura dei violini di Carlo Maria Parazzoli, Andrea Obiso, Alberto Mina, David Romano e del violoncello di Gabriele Geminiani ha reso piena giustizia a questa pagina vivaldiana insieme all’orchestra diretta con mano sicura da Pappano e calorosamente applaudita dal pubblico.
Dopo è stata eseguita la suite che Igor Stravinskij trasse dal suo Pulcinella, azione danzata con coreografie di Massine, scene e costumi di Pablo Picasso andato in scena a Parigi all'Opéra il 15 maggio 1920 con la direzione di Ernest Ansermet. Il settecento fu ricreato sulla base di musiche che Stravinskij credeva tutte di Giovanni Battista Pergolesi ma che erano anche del veneziano Domenico Gallo (1730 circa -1768), del parmense Fortunato Chelleri (1690-1757) e del romano Alessandro Parisotti (1853-1913), che compose un’aria Se tu m’ami, che incluse nella sua raccolta a nome Pergolesi, un falso settecentesco che ingannò Stravinskij. Il compositore rielaborò per la suite 11 numeri dal balletto ((1-5,12,14-18), non è una trascrizione della musica settecentesca ma una libera rielaborazione con alterazioni del fraseggio, con dissonanze, che enfatizza il ritmo e apre il fecondo periodo detto “neoclassico” del compositore russo. Una composizione che mette in luce le diverse sezioni e prime parti dell’orchestra che hanno modo di mostrare la loro bravura occasione che i musicisti ben diretti da Antonio Pappano hanno colto brillantemente riscuotendo il plauso del pubblico.
Conclusione con il Concerto per pianoforte e orchestra n.23 in la maggiore K 488 di Mozart, composizione celeberrima molto amata dai più grandi pianisti e dal pubblico, ma anche insidiosa per quell’Adagio centrale che pone ardui problemi interpretativi. Il concerto fu composto in un periodo di feconda creatività insieme a Le nozze di Figaro e ad altri due concerti per pianoforte e orchestra il K.482 e il K.491. La splendida esecuzione che abbiamo ascoltato ha avuto i suoi punti di forza nell’armonioso accordo tra Pappano e Bollani e nell’interpretazione che quest’ultimo ha dato del brano. Bollani ci ha colpito per la sua musicalità, per il tocco cristallino e soave, giocoso e brillante negli Allegro che incorniciano il sublime Adagio in cui scorre una inquieta, profonda e ineffabile tensione interiore resa così evidente dal solista da incantare gli ascoltatori che gli hanno tributato una festante ovazione. L’entusiasmo incandescente del pubblico ha portato Bollani a concedere due i bis che hanno palesato la sua gioia e divertimento nel fare musica: una sua composizione, Sentieri, in cui abbiamo avuto l’impressione di percepire echi di Darius Milhaud. Un compositore che amò la musica brasiliana, una connessione con il secondo bis una deliziosa e funambolica improvvisazione in cui il terzo movimento Alla turca, Allegretto dalla mozartiana Sonata in la maggiore K. 331, è stato giocosamente intrecciato con il ritmo del samba sfociato nel celeberrimo e vorticoso Tico Tico, portato al successo planetario da Carmen Miranda nel film Copacabana.
Uno squarcio luminoso che è stato molto amato dal pubblico presente ma che si è rivelato quasi un miraggio, l’assurda decisione di chiudere teatri e sale da concerto in cui tutto il protocollo sanitario è controllato con scrupolosità, suona come una ingiusta sentenza di condanna a morte dello spettacolo dal vivo perché l’orizzonte è talmente lontano che la sopravvivenza potrebbe essere solo una chimera.