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Santa Cecilia Opera Studio. La vena comica di Ravel e Puccini
Due grandi del Novecento a confronto sul terreno del teatro farsesco: la commedia musicale in un atto di Maurice Ravel L'heure espagnole e il movimentatissimo Gianni Schicchi di Giacomo Puccini: sul palcoscenico dove viene ricreata la cornice di un teatro di marionette, a cura di Gennaro Vallifuoco, gli artisti (professionisti e giovani) di Santa Cecilia Opera Studio e l''Ensemble Novecento, sono stati diretti dall'assistente di Pappano, Carlo Rizzari, per tre serate dall11 al 14 settembre 2012.
Uno schioppettante orologio che sulla musica di Ravel si distingue per frammenti, rumori, attacchi di danze della tradizione a cavallo dei Pirenei, quella che fece scrivere a Ravel le due Rapsodie Espagnole, Bolero, e tanto si riconosce qui come altrove, detta il ritmo della burla di Concepciòn, la soprano Carmen Romeu, maliarda affamata di soddisfazioni nel talamo e felice infedele del proprietario della bottega di orologi, il pacato e innamorato Torquemada. Le arie del tenore, appena rivede la mogliettina ardente, si fanno leggere, e il tenore Moisés Marìn Garcìa occhieggia naïvement Conception che già si appresta a sperimentare gli ardori dei due pretendenti che nasconderà nelle pendole dalle silhouettes femminili: lo studente Gonzalve (il tenore Flaviano Bianchi) e il banchiere Don Inigo Gomez (Clemente Daliotti). Come ci si poteva aspettare, entrambi dormienti nella loro attività erotica, saranno ben presto sostituiti dall'aitante, in quanto a forza muscolare e a voce, il baritono Dario Ciotoli, mulattiere Ramiro, che porta in su e in giù le due pendole, come farà con la sensuale Concepciòn: riflesso metaforico che verrà ben sottolineato dalla musica che apprende a svettare e farsi lirica nell'incontro tra i due.
L'heure espagnole, concepita nel 1907, esattamente come il seguente Schicchi di Puccini è costruito seguendo il meccanismo di una scatola che si richiude su una morale cantata in coro dai cinque e che svela l'intreccio a tutti, e che dice infine, poarafrasando Boccaccio: “Tra tutti gli amanti l'unico che ha successo è quello efficace (o efficiente) e che alla fine, nella ricerca dell'amore, viene sempre il turno del mulattiere!”
Gianni Schicchi – la prima al Costanzi di Roma nel 1919 -, dall'altra parte, è un delirio di comicità grottesca intorno alla morte di Buoso Donati ed alla sua eredità situata a Firenze nel 1299: lo Schicchi è lo stesso che comprare nell'Inferno dantesco nel Canto XXX, dove si racconta quel che accade nell'opera di Puccini con libretto di Giovacchino Forzano. Il girotondo dei parenti, la richiesta degli innamorati, la figlia di Schicchi, Lauretta, che è stata eccellentemente interpretata dalla soprano Rosa Feola (in special modo nell'aria Oh mio babbino caro, con degni applausi a riaffermarne la bravura) e Rinuccio (il tenore Davide Giusti), di far intervenire Gianni Schicchi per risolvere la questione dell'eredità che Buoso Donati vuole tutta per i frati, compone un meccanismo perfetto e rapido su cui si innerva come refrain il tema beffardo di Gianni Schicchi. Lui solleverà i parenti dalla questione ma non senza prendersene credito a favor suo e dei due giovani promessi sposi, come spiega nel finale l'eccezionale baritono Sergio Vitale, dalla carica e dalla prontezza musicali ineguagliabili, in questo ritratto burlescamente toscano.
Affiatata e trascinante l'armonia tra conduttore Rizzari, Ensemble Novecento e cantanti di Santa Cecilia Opera Studio: un esempio da prodigare al pubblico.