Supporta Gothic Network
Santa Cecilia. La perlacea cristallinità di Zimerman
Insieme al debutto del finlandese Mikko Franck a Santa Cecilia, un maestro assoluto del piano, Krystian Zimerman, si dedica al Concerto n. 1 in re minore per pianoforte e orchestra op. 15 di Johannes Brahms, tra 13, 15 e 16 giugno nella Sala dell'Accademia per un tris di concerti che fanno il bis al concerto tutto schubertiano del 10 giugno che, come stasera, si è tenuto nella Sala Santa Cecilia.
L'imponente Concerto per pianoforte n. 1 in re minore, composto in età giovanile da Brahms, nasce alla fine di una tournée del dotatissimo compositore e virtuoso della tastiera nel 1853, e dopo aver fatto la conoscenza di un altro astro del pianoforte e della composizione come Schumann. Quest'ultimo, notevolmente impressionato dalle sonate per piano di Brahms, fece nascere in quest'ultimo l'idea di trasformare una sonata in re minore in una sinfonia, ma, non riuscendovi, scelse la forma più appropriata del concerto per piano. Conservando il primo dei tre movimenti della sonata, nel 1856 scrisse un nuovo Adagio ed un Rondò finale piuttosto acceso. Ultimato nel 1858, venne eseguito da Brahms stesso l'anno seguente in forma pubblica ad Hannover, con direttore Joachim, ed a breve a Lipsia, ricevendo delle critiche proprio per i suoi tratti distintivi, precisamente romantici, dell'irruenza e del profondo afflato con l'orchestra.
Il Maestoso del primo movimento, con i suoi trilli virulenti, arditamente mette l'ascoltatore alla prova ma in questo Zimerman, evolutasi la sua interpretazione in una più intensa ed interiore osmosi, ne sottolinea il carattere di profonda commozione oltre che di virulenza, come farà con l'Adagio seguente, scritto in forma ternaria di Lied, dove l'aulica religiosità si rivela nelle sua veste sospesa e più mistica, a tratti consolatoria. Il liberatorio Rondò finale, estremamente lirico, si presenta coma una lunga cavalcata cui Zimerman, perlaceamente cristallino nella sua “evocazione” (in particolare nell'Adagio) dall'inizio alla fine, stampiglia con una sua firma che ci rende meritoriamente partecipi di ogni singola intensità veicolata dal suono.
La seconda parte del concerto prosegue con l'ultima sinfonia di Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893), la n. 6 in si minore op.74 (1893), ultimata pochi giorni prima della sua scomparsa e, sebbene oggi venga rigettata la tesi del suicidio per la futura e sicura onta della sua relazione – ormai divenuta di dominio pubblico – con il nipote del duca Stenbock-Thurmor –, dei dubbi sulla distrazione che lo portò a bere acqua non bollita nella San Pietroburgo dove imperversava il colera angosciano chi scrive, soprattutto dopo questo ascolto dal vivo che rivela quel senso di “smarrimento” medesimo che colpì il pubblico della prima esecuzione assoluta e che a più di un secolo di distanza non si affievolisce affatto.
La Patetica infatti, titolo più che appropriato conferito alla sinfonia dal fratello Modest, avviluppa immediatamente nelle sue cadenze dalle precipitose aperture liriche, fin dal primo movimento, Adagio. Alllegro non troppo (il più lungo); continuando nell’Allegro con grazia, nello strepitoso attacco di reboante percussività coadiuvata dagli archi gravi, mentre gli altri “staffilano” il suono; quell’espressività conduce ad episodi la cui rutilanza muta raffinatamente in un valzer impossibile nell’Alllegro molto vivace. Qui il colore trionfa in tutta la sua sinuosa marcia lasciando spazio poi al tema silenzioso, che torna inaugurando il dialogo tra le parti di andamento brillante.
Nel quarto movimento, l’Adagio lamentoso. Andante, si respira la malinconia della fine che, se vogliamo seguire la trasposizione biografica del fratello Modest, traduce i movimenti con i quattro stadi della vita di Pëtr Il'ič: l’ultimo movimento rappresenta la mesta consapevolezza della caducità, di quel nulla che ha cercato di sconfiggere con la musica, seppur non essendogli mai sfuggito del tutto.
L’ultimo Adagio è quindi estremamente eloquente e concentrato, ed i tagli marcati ed improvvisi, che poi convogliano verso il tema lirico centrale già sviluppato, non fanno che spingere in quel vortice che ha trasportato Čajkovskij nella scrittura di uno dei suoi vertici, in cui il lirismo e la precisione della scrittura sono talmente sincronici da lasciare sbigottiti. Essi svelano l’afflato dell’eternità (la Sehnsucht romantica) insieme al senso di fugacità, irretendo e consentendo di dire che il capolavoro della Sesta ha conquistato uno status di eccellenza, pienamente orientato su quell’infinito che traduce nel cuore il sentimento lirico, ed effonde un anelito che sconquassa ad ogni ascolto.
Mikko Franck - ben affiatato con l'Orchestra di Santa Cecilia -, che è particolarmente legato a quest'opera per le sue vicissitudini personali, conviene a darne un'esecuzione sicuramente coinvolgente, soprattutto durante gli episodi più accesi, senza però dar seguito a quel tourbillon finale appena citato.