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The Sessions. Al cinema gli amori e la polio di Mark O'Brien, poeta
Non si può negare che a Hollywood vi sia una particolare propensione per le storie di personaggi con un handicap, anche grave, che grazie alla loro forza di volontà e a uno spirito indomito riescono a prendersi comunque una rivincita, rispetto alla vita che li ha messi così a dura prova. Ed il rischio che da tale propensione escano fuori polpettoni melensi, retorici, è quanto mai alto. Fortunatamente non è questo il caso del discreto lungometraggio realizzato da Ben Lewin, The Sessions, che persino quando sfiora il patetico riesce sempre a compensare un simile rischio con buone dosi di ironia e leggerezza.
L’ispirazione arriva qui dalla toccante autobiografia del giornalista e poeta Mark O’Brien, più in particolare dal saggio “On Seeing A Sex Surrogate” in cui l’autore analizza il rapporto col sesso, difficile ma non impossibile, di chi è costretto a confrontarsi con una pesante disabilità motoria. Già, perché il tenace Mark O’Brien (31 luglio 1949 – 4 luglio 1999) all’età di sei anni venne colpito dalla polio, tanto duramente da condurlo verso quella paralisi quasi completa che lo ha infine costretto a vivere, per gran parte del tempo, in un polmone d’acciaio. Ad una sorte tutt’altro che benevola, però, Mark ha saputo replicare costruendosi lo stesso una vita intensa, dedicata da un lato allo studio e alla composizione di scritti connotati da humour e grande sensibilità letteraria, dall’altro alla costruzione di rapporti umani e sentimentali autentici, che andassero perciò oltre la possibile ghettizzazione suggerita dall’handicap fisico. E in questo processo di emancipazione dalla malattia anche l’eros ha svolto un ruolo importante.
“Dubitavo di meritare l’amore. Le mie pulsioni sessuali, frustrate, mi sembravano solo l’ennesima maledizione inflittami da un Dio crudele.” In queste lapidarie affermazioni, tratte dal già citato “On Seeing A Sex Surrogate”, si trova condensata la doppia anima di un film che del protagonista esplora tanto le pulsioni sessuali, che il complesso ma assai sentito rapporto con la religione cattolica. Quest’ultimo aspetto racchiudeva in sé le difficoltà maggiori, per quanto riguarda il rischio di andare incontro a posizioni conformiste e moraleggianti, ma va detto che Lewin è riuscito quasi sempre a dribblare la stucchevolezza dell’argomento; affidandosi, peraltro, a uno strepitoso William H. Macy, che nei panni di Padre Brennan si è divertito ad affrescare i modi informali e talvolta poco ortodossi di un sacerdote, nonché consigliere spirituale, meno bigotto di quanto potesse apparire all’inizio.
Se nella parentesi religiosa l’ironia è spesso presente, le notazioni umoristiche si fondono invece con una altrettanto spiccata vena sentimentale quando salgono in cattedra i diversi amori del protagonista che, al pari di Bertrand Morane ne L’uomo che amava le donne, si troverà circondato dalle donne della sua vita nel momento della dipartita e di uno struggente funerale. Bravissimo è anche Hohn Hawkes, già ammirato in innumerevoli pellicole tra cui ovviamente Un gelido inverno, ad animare il corpo esausto di Mark, limitato dalla malattia ma incessantemente alla ricerca di sensazioni, fisiche, come pure interiori. E in questa continua esplorazione, corredata di battute intelligenti, momenti di vulnerabilità, cedimenti improvvisi e miracolosi recuperi, un’impressione notevole la fanno i rapporti più intimi tra l’attore e i diversi personaggi femminili, tra cui brilla per sensibilità e sensualità una sempre convincente Helen Hunt.
"Lascia che ti tocchi con le mie parole,
perché le mie mani sono flosce come guanti vuoti."
Mark O'Brien, Poesia d'amore per nessuna in particolare