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Simon Boccanegra alla Scala. Domingo verdiano Doge pietoso e dolente
Simon Boccanegra, titolo verdiano controverso sin dalle sue prime rappresentazioni, ha diviso nuovamente gli animi del pubblico scaligero nella recente proposta ad opera di Daniel Barenboim, Placido Domingo e Federico Tiezzi al Teatro alla Scala di Milano dal 16 aprile fino al 7 maggio 2010. Mancava sul palcoscenico scaligero da poco più di vent’anni, ultima volta diretto dalla bacchetta di Georg Solti in forma di concerto nel 1988.
Maggior curiosità era per la prova di Placido Domingo, già eccellente Gabriele Adorno, ed ora al debutto nel title-rôle: desiderio e volontà del tenore di sperimentare per una volta un personaggio straordinario per la resa interpretativa, pur in una corda baritonale comunque diversa dalla sua abituale vocalità. Se ci si attiene al puro lato del timbro e del cosiddetto peso vocale necessario (o al quale si era ormai abituati dalla storia interpretativa) Domingo è lontano, sia per colore, sia per comodità nella tessitura. Eppure, nonostante l’ovvio distinguo, difficilmente si sono sentite frasi di struggente umanità espresse con così alta convinzione e dolcezza nei precedenti grandi Boccanegra. Il suo doge è umanissimo e dolente, più attento e partecipe all’assurdità del quotidiano e agli scontri tra le convenzioni sociali che al più ampio respiro politico di cui è intessuta ulteriormente la vicenda.
Libretto, quello del Boccanegra, che proviene dal medesimo Gutierrez cui Verdi dovette l’ispirazione del Trovatore e delle immense, lunari solitudini di Azucena, Leonora, Manrico e dell’indomito Conte di Luna. Il lato del sogno, romantico, tardo romantico, quindi tormentato, complesso, costellato di incubi è forse la chiave di lettura anche della regia di Federico Tiezzi e delle scene di Pier Paolo Bisleri: senza azzardare attualizzazioni, rappresenta un mondo chiuso, oppressivo e dal quale è impossibile sfuggire. Il finale dell’ultimo atto, con l’apparizione di Amelia vestita col bianco nuziale, in un progressivo abbassarsi e spegnersi delle luci in scena, avvince con scapigliata aderenza ed esalta le doti d’attore di Placido Domingo, forse al suo momento più alto di tutta la serata.
Daniel Barenboim, infine, concerta senza quel passo narrativo che lo rende del tutto appassionante in Wagner, ma preferisce seguire lo svolgersi dell’azione sottolineando ed esasperando le sfumature, alla ricerca di un’analisi psicologica sia nelle voci che nei timbri orchestrali ovviamente lontana dalle precedenti interpretazioni, ma in linea con l’impostazione complessiva dello spettacolo. Dove risulta meno convincente è nelle scene d’insieme, condotte con minor risolutezza.
Tra gli altri interpreti spicca l’Amelia matura e spigliata di Anja Harteros che si disimpegna con la consueta facilità nelle numerose asperità della scrittura verdiana: il timbro caldo e l’ampiezza della sua vocalità regalano una prova del tutto convincente. Più affaticato Fabio Sartori, Gabriele Adorno generoso, ma generico nel fraseggio e nell’interpretazione. Massimo Cavalletti, quale Paolo Albiani, invece, non riesce ad aver ragione di una scrittura forse del tutto attinente alle proprie corde, mentre stanco nel timbro e nella cura del fraseggio è apparso Ferruccio Furlanetto, pur riuscendo, in alcuni momenti, a ritrovare il colore brunito e caldo del proprio registro di basso che tanto lo ha reso celebre nell’ormai più che trentennale carriera. Buono il coro e alterna l’orchestra che nella recita del 16 aprile ha saputo assecondare le richieste di Barenboim con momenti di alta concentrazione altalenanti ad altri in cui è parsa distratta, soprattutto nella sezione dei legni.
Il pubblico, sia alla ripresa dopo l’unico intervallo che al termine della recita si è diviso nell’accoglienza positiva della recita, con applausi convinti e contestazioni da parte di alcuni verso la direzione, la regia e lo stesso Placido Domingo, non volendo probabilmente accettare una proposta comunque condotta con intelligenza e serietà interpretativa da parte del cast nel suo complesso.