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Spoleto. 58Festival dei 2Mondi. Tra i duellanti e le bambole di Auschwitz
Il 58° Festival di Spoleto, nell'edizione 2015, ha visto inscenate due notevoli performances teatrali: Kamp, della Hotel Modern Theatre Company, uno spettacolo con piccole marionette fatte a mano per raccontare gli orrori dell'Olocausto; e I duellanti, pièce teatrale più classica ispirata a un romanzo breve di Joseph Conrad.
Nel 1908, il grande scrittore polacco, naturalizzato inglese, Joseph Conrad (pseudonimo di Józef Teodor Konrad Korzeniowski), pubblicò un romanzo breve intitolato The Duel: A Military Story, apparso sulla rivista britannica The Pall Mall e l’anno seguente, con il titolo The Point of Honor, sul magazine americano Forum.
La storia è ambientata nel periodo napoleonico, come Conrad precisa immediatamente, introducendoci con secca e tagliente incisività nel contesto politico-militare: «Napoleone I, la cui carriera ebbe la qualità di un duello contro l'intera Europa, disdegnava il duello tra gli ufficiali del suo esercito. Il grande imperatore militare non era un fanfarone da romanzo di cappa e spada (swashbuckler), e aveva poco rispetto per la tradizione».
Conrad, tuttavia, sottolinea come l'epopea delle guerre imperiali sia stata attraversata dalla storia di un duello presto diventato leggenda tra le file dell’esercito, suscitando sorpresa e ammirazione nei commilitoni: i protagonisti erano due ufficiali di cavalleria, che come gli artisti folli che cercano di reindorare oro già raffinato, perseguirono una contesa privata durante gli anni della carneficina universale. I nomi dei due ufficiali erano Feraud e D'Hubert, entrambi tenenti degli ussari, ma non nello stesso reggimento.
Il regista e sceneggiatore Francesco Niccolini ha preso spunto da questa storia (e anche dalla trasposizione cinematografica di Ridley Scott, The Duellists, del 1977), traducendola e adattandola, con il titolo I duellanti, e portandola poi sulla scena al Festival di Spoleto, dove abbiamo assistito allo spettacolo del 12 luglio 2015, con Alessio Boni (che è stato anche il regista dello spettacolo insieme con Roberto Aldorasi) e Marcello Prayer che hanno sapientemente interpretato i due duellanti, grazie anche alle istruzioni ricevute da un vero maestro d’armi, Renzo Musumeci Greco.
Sulla scena, per merito anche dei costumi e della sapiente ambientazione, si percepisce l’affresco di un mondo, quello della cavalleria e degli eserciti del Settecento e dell’Ottocento, che era destinato a essere spazzato via dalle nuovi armi e dalle nuove logiche militari del cosiddetto “secolo breve”, il Novecento. Ma già allora, un contemporaneo di Napoleone, Hegel, aveva intuito che «il principio del mondo moderno ha dato al valore militare l’aspetto più elevato, per cui esso appare non come rivolto contro persone singole, ma contro una totalità ostile; e, quindi, il coraggio personale appare come non-personale. Quel principio ha inventato, quindi, l’arma da fuoco». Grazie all’introduzione delle armi da fuoco, il valore militare sarebbe diventato più astratto. Ma l’avvento di armi da fuoco a ripetizione e la gestione industriale dei profitti di guerra avrebbero radicalizzato tali processi.
Nei Duellanti i due avversari non appartengono agli schieramenti opposti, facendo entrambi parte della Grande Armée di Napoleone Bonaparte. La loro vicenda così rasenta l’assurdo e il ridicolo, perché, per motivi tanto banali quanto ignoti ai più, scandiscono le loro carriere con continue sfide a duello, diventando noti al pubblico non tanto per il loro valore sul campo di battaglia, quanto per l’eroica fedeltà alla loro sfida perenne e permanente, reiterata per vent’anni, fino all’ultimo duello, apparentemente decisivo.
I due ufficiali incarnano il primo (Gabriel Florian Feraud) il sanguigno guascone, collerico e facile all’ira, e il secondo (Armand D’Hubert) il compassato e signorile uomo del Nord, rappresentando tipologie umane che si troveranno con varie somiglianze in diversi scrittori, da Hermann Melville a William Faulkner, da Franz Kafka ad Albert Camus, da Robert Musil a Thomas Mann (si pensi al duello tra Naphta e Settembrini nella Montagna magica di Thomas Mann).
Come ha rilevato Niccolini, nei Duellanti l’avversario più feroce è dentro ciascuno dei due contendenti, che non riescono a liberarsene, perché esso coincide con la voglia di libertà e con il piacere del rischio e della conquista. Certo, Feraud esiste come avversario reale, in carne e ossa, ma è anche la metà oscura di D’Hubert, che riemerge ogni volta che quest’ultimo scopre un desiderio vietato che non vuole negarsi, come ad esempio un duello in piena regola.
Dopo decine di duelli alla sciabola, l’ultimo e definitivo sarà alla pistola. D’Hubert ostentando nonchalance mangia un’arancia (citazione dall’Eugene Onegin di Aleksandr Puškin) e Feraud spara due volte, ma manca D'Hubert che si nasconde dietro gli alberi. Quest’ultimo infine risparmia la vita del suo rivale, conservando i due colpi per qualsiasi evento nel futuro.
Questa produzione che l'Hotel Modern theatre company ha presentato a Spoleto, dal titolo immediatamente chiarificatore, KAMP, e va in giro per il mondo dal 2005, e andrà anche a Torino per MITO, il prossimo ottobre, è impressionante. Si comincia con un suono di ranocchie in uno stagno mentre si osserva il plastico del campo di concentramento di Auschwitz, dove è morto il nonno di una dei tre performer, Pauline Kalker. E si comincia ad osservare che la miniaturizzazione delle baracche dei condannati; di quelle delle camere a gas; la ferrovia che entra dentro il campo, ed infine il cancello che si illumina dopo un po' in blu elettrico “Arbeit macht Frei” (il lavoro rende liberi) è del tutto raggelante.
Le bamboline che usano e creano i performer dell'Hotel Modern, nato in Olanda nel 1997 su sponte di Pauline Kelker, riunendo prima Arlène Hoornweg e poi Herman Helle, sono artigianali: alte otto centimetri, sono minuscole e sono mosse meccanicamente dai performer per ricreare ogni singolo momento di vita nel campo, verosimilmente. Se si osservano da vicino, attraverso le mcirotelecamere che usano i peformer per riprenderle, queste bamboline mostrano tutte un'espressione diversa, sebbene la testa sia per tutte bianca, un po' schiacciata e senza capelli. I colori sono tutti cupi o spenti, ed al pubblico sembra incolore anche il rosa di qualche vestito di cui si è dovuto spogliare la giovane ebrea prima di essere avvelenata a morte con l'acido cianidrico, che viene preparato prima per essere iniettato nella camera a gas collettiva dall'alto.
Le scene mostrano tutto: il prigioniero che muore sul filo spinato elettrificato; l'altro che viene accanitamente colpito con la vanga perchè non ha eseguito “perfettamente” gli ordini della sentinella nazista; l'altro prigioniero che è costretto a caricarlo sul carro come i rifiuti che prima era compito suo spalare. Le piccole telecamere si insinuano dappertutto e ovunque è orrore. I soldati che brindano col vino dopo una giornata trascorsa a torturare hanno il loro tragico contraltare nei condannati che muiono inesorabilmente di fame, grattando la scodella del rancio. L'ultima scena è lo sterminio di massa attuato nelle camere a gas: vengono caricati uno ad uno i condannati per l'ultima esecuzione letale.