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Tabucchi. L'inafferrabile etereità del tempo
La riflessione sul tempo, entità tanto misteriosa quanto inafferrabile, ha sollecitato tanti interrogativi e tentativi di risposta sin dall’antichità, a partire dalle origini dello stesso pensiero occidentale, da quando i Greci indicavano in Crono il padre di tutte le cose, fino a divenire il centro della speculazione filosofica di ogni epoca, da Platone, Aristotele e Sant’Agostino a Bergson e ad Heidegger. A questi tentativi non sfugge una delle ultime opere dello scrittore recentemente scomparso Antonio Tabucchi (1943-2012), Il tempo invecchia in fretta, raccolta di nove racconti edita da Feltrinelli, e nella quale si cerca di dare una rappresentazione del ruolo del tempo nell’ era post-moderna.
Il titolo dell’opera si richiama esplicitamente ad un frammento attribuito al presocratico Crizia: “Inseguendo l’ombra, il tempo invecchia in fretta”, laddove “inseguire l’ombra” significa, come affermò lo stesso autore nella presentazione del suo lavoro presso la libreria Feltrinelli di Milano, perdersi dietro vanità inconsistenti, futili illusioni, che logorano il tempo in un vorticoso ed ininterrotto andirivieni tra presente, passato e futuro. Sembra, infatti, che questa concezione fatta propria dall’autore, riecheggi in filigrana la celebre sententia di Seneca, secondo cui “non abbiamo poco tempo, ma molto ne perdiamo” (De Brevitate vitae, Cap. I). Per Tabucchi, dunque, il tempo più che passare, si sciupa, si raggrinzisce, invecchia e poi svanisce.
Un tale concetto percorre tutti i nove racconti dell’opera e si sostanzia ad un livello che travalica i confini dell’individuo, aprendosi ad una prospettiva storica. I personaggi sono, infatti, tratteggiati nel loro rapporto con gli aspetti più aberranti della Storia: dalla Shoah all’occupazione dell’Ungheria da parte dell’armata sovietica fino ad arrivare alle cosiddette missioni di pace in Kosovo. È il periodo post-comunista quello su cui maggiormente ricade l’attenzione dell’autore, motivo per cui alcuni racconti sono ambientati in diversi paesi dell’Europa dell’Est, come Bucarest, Budapest e Berlino Est, Varsavia. Si tratta di luoghi e di momenti storici in cui i cambiamenti repentini lasciano manifestare la potenza del tempo nel suo essere un passato che agisce ancora prepotentemente nel presente.
Emblematico a tal proposito è ciò che accade nel racconto Fra Generali a Làszlò, ufficiale ungherese che nel 1956 aveva combattuto contro l’armata sovietica. Ora si trova a New York, guarda dalla finestra i grattacieli della grande città, passeggia per Central Park e, quando il sole cala, immagine con cui metaforicamente si rimanda alla fine della vita, decide di ritornare a Mosca per incontrare Dimitri, l’ufficiale russo che lo aveva catturato. Decide, quindi, di ritornare al passato, di recuperare ciò che fu, perché il tempo, invecchiando in fretta, trasforma in “miraggi ciò che in un altro tempo fu vero davvero”. La scelta di Làszlò risulta l’unica possibile per poter vivere ancora un degno presente: quando giunge a Mosca e incontra Dimitri, ritrova tutta la sua antica energia vitale, potendo, alla fine, affermare con orgoglio “a Mosca ho passato i giorni più belli della mia vita”.
Il tempo, quindi, inteso come un passato che ritorna, anzi che deve ritornare e non inabissarsi nell’oblio. Il tempo come memoria da preservare in un’epoca appiattita sul presente come unica alternativa per rifondare una nuova identità e un nuovo futuro. E la paura dell’oblio, talvolta, sembra innescare proprio un meccanismo contrario in base a cui è proprio il passato ad imporsi sul presente, come accade al protagonista di Bucarest, un ebreo rumeno che, pur vivendo nella Tel Aviv contemporanea, crede di essere ancora sotto il regime di Caucescu e si ostina a parlare il rumeno e non l’ebraico. In questo caso il ricordo è un unicuum con ciò che è, con la propria identità, quasi configurandosi come l’unica realtà esistente.
Profonda è, invece, la crisi quando non si è padroni del proprio passato, come accade per la protagonista del primo racconto Il cerchio, una donna quasi quarantenne, il cui ricordo non era un vero ricordo ma il ricordo di un racconto, e non era un sentimento, era un’emozione e in fondo neppure emozione, erano solo immagini che la sua fantasia aveva costruito da bambina ascoltando ricordi altrui. Quando il tempo s’impone in tutta la sua evidenza e riaffiorano alla mente i mesi, gli anni, le date, il calendario, la donna sprofonda in un’inquietante sensazione di estraneità a se stessa. È un attimo quello in cui la protagonista raggiunge la consapevolezza di non aver avuto un figlio, vedendo con chiarezza tutto ciò che non è, tutto ciò che non ha, sentendosi come un bambino che all’improvviso si ritrovava con un palloncino floscio tra le mani, a cui avevano sottratto l’aria che c’era dentro. Era dunque così, il tempo era l’aria che c’era dentro. Era dunque così, il tempo era aria e lei l’aveva lasciata esalare da un forellino minuscolo di cui non si era accorta? Ecco che il tempo, che prima si era nascosto, si svela per poi ri-velarsi, mostrandosi come entità inafferrabile.
Il tempo, quindi, fugge, ritorna, confonde. L’unico modo per un gioco alla pari, sembra comunicarci l’autore, è di rifugiarsi nella memoria, per evitare di sfuggire al proprio presente e per catturare il passato in un futuro ancora da vivere.