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Teatro Argentina. La brulicante Carmen di Martone
Il rumore delle onde del mare riecheggia dolcemente fino a quando l’immagine di un uomo ripiegato su se stesso si staglia dall’oscurità del palco del Teatro Argentina. Inizia così lo spettacolo della Carmen, rappresentato all’Argentina dal 18 marzo al 19 aprile, riadattato dalla regia di Mario Martone. Il testo di Mérimée rivive sulla scena del teatro romano grazie alla sapiente riscrittura di uno dei più importanti drammaturghi del nostro tempo, Enzo Moscato, mentre le musiche di Bizet vengono abilmente trasfigurate dall’Orchestra di Piazza Vittorio con sonorità inedite.
Sin dalla prima scena compaiono i protagonisti, Don Josè e Carmen, i quali, interpetati da Roberto De Francesco e da un’intensa Iaia Forte, appaiono ormai piegati inesorabilmente dal peso delle loro azioni. Ed ecco che la rappresentazione riannoda le fila della vicenda, ritornando, attraverso un efficace flashback, ad un passato ormai remoto, al momento dell’incontro tra Don Josè/Cosè e Carmen, rievocando i primi attimi della loro unione. Attraverso un andirivieni temporale il pubblico è proiettato nella Napoli del dopoguerra e degli anni ’80, in quella città dai mille espedienti, come afferma significativamente Cosè, alludendo a quella umanità brulicante ed eterogenea che si agita nelle strade partenopee, un crocevia di gente proveniente da luoghi diversi. La multietninicità di Napoli risalta ancora con maggiore evidenza in quanto richiamata dalla musica anch’essa eterogenea dell’Orchestra di Piazza Vittorio, che si caratterizza per la forte contaminazione culturale e di generi e i cui musicisiti hanno loro stessi una parte nella trama narrativa. Salgono, infatti, sul palco essi stessi, mescolandosi tra i vicoli partenopei, prendendo parte alla raffigurazione folkloristica della popolazione napoletana che si riunisce intorno a taverne malfamate, dilatando lo spazio e conferendo in tal modo movimento alla scena curata da Sergio Tramonti.
Sonorità e ambientazione concorrono, pertanto, a rievocare quell’elemento gitano tanto predominante nell’opera originaria, tipico di Siviglia quanto della stessa Napoli, la quale con i suoi volti cangianti riesce a trasformare il personaggio di Cosè. Da bravo soldato, tutto rispettoso delle regole, a causa della gelosia che prova verso Carmen arriverà ad uccidere i suoi rivali in amore: prima il tenente Zuniga, interpretato da Giovanni Ludeno, e poi tanti altri tra cui il famigerato O’ torero (Houcine Ataa), confondendosi lui stesso tra la folla di briganti che agitano la città, spinto dall’amore alla follia fino alla più totale perdizione, quando arriverà ad accecare la stessa Carmen, durante la tradizionale festa di Piedigrotta. È questo forse il momento in cui l’opera sembra meglio mescolare il duplice registro della commedia e della tragedia, passando repentinamente dalla vivacità dell’allegra brigata, di cui faceva parte la stessa Carmen, al pathos, alla sofferenza; dalle urla gioiose della festa all’urlo disperato della donna. Un passaggio repentino ma non brusco, in quanto anche nell’effervescenza della festa napoletana c’è un’eccessiva intemperanza che lascia presagire l’inevitabile.
Carmen, pur accecata, non perde tuttavia la forza di parlare e di raccontare quanto le è successo. Questa è una delle più macroscopiche differenze rispetto all’opera originaria, in quanto la protagonista nell’opera di Martone non muore, continua a vivere, a far sentire la propria voce, la propria storia. Questa zingara, sin dall’inizio, ci appare come un essere mitologico sospeso tra il dramma greco e la commedia napoletana, ondeggiando, da un lato, sinuosamente sulla scena, dall’altro facendo risuonare una voce accorata e profonda, destinata a vibrare negli animi di tutti. È un personaggio che non può essere imbrigliato in alcuna definizione, che si mostra ribelle ad ogni convenzione e orgogliosamente selvaggia, come suggeriscono le atmosfere dell’Habanera, rivendicando fino alla fine il suo diritto ad essere capricciosa, imprevedibile, ad essere se stessa, ad essere libera. Una libertà delirante che la spinge a congedarsi con fierezza: “Che vi devo dire? “I’ nun sò morta!!!Musica maestro”. Un finale inedito quello di Martone che mostra come il personaggio di Carmen possa benissimo trasformarsi in Carmèn, riuscendo a riverberare la propria immagine nei rivoli partenopei, senza tuttavia perdere la propria essenza emotiva.