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Teatro Argentina. Il gotico Pirandello di De Fusco
Da una scena essenziale si sente il vociare concitato di un capocomico alle prese con la sua compagnia, con un’attrice in ritardo e con indicazioni non ben comprese. Così ha inizio al Teatro Argentina di Roma I sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, in programma dal 6 al 18 febbraio 2018, il cui allestimento è stato curato da Luca De Fusco su produzione del Teatro Stabile di Napoli, Teatro Nazionale di Roma e Teatro Stabile di Genova.
È questo uno spettacolo che oscilla tra il rispetto del testo pirandelliano e nuove suggestioni, perché, se da un lato De Fusco si attiene a tutte le indicazioni sceniche dell’autore, non esita a sfruttare il potente “occhio visionario” del cinema.
E, infatti, sin da quando irrompono sulla scena direttamente dallo schermo, i sei personaggi rievocano innanzitutto Broadway Danny Rose di Woody Allen; ma il loro configurarsi come presenze dall’impalpabile consistenza, arrivati, improvvisamente, quasi dalla dimensione dell’ignoto, richiama alla mente dello spettatore anche l’immagine dei protagonisti del film The Others del regista Alejandro Amenábar, ugualmente privi di una concreta esistenza. Immediato è, infatti, il senso di straniamento per il pubblico che vede il dramma pirandelliano catapultato in un’atmosfera quasi gotica, dove il nero è la nota cromatica dominante.
Ciò, tuttavia, non deforma assolutamente il testo pirandelliano, ma lo potenzia, facendo emergere forse dei punti di contatto tra il pensiero di Pirandello e l’opera di Henry James, The Turn of the Screw, cui The Others liberamente si ispira. Sulla scena, pertanto, opere letterarie appartenenti a contesti diversi e cinema si intrecciano in un legame indissolubile, grazie alla sapienza del regista.
Proprio come nella letteratura gotica, i sei personaggi rimangono eterei, spettrali ed in bianco e nero, senza che l’Arte riesca a dare loro consistenza reale. Sono alla ricerca di una vita che non riesce a materializzarsi e per questo, nella speranza che la compagnia del capocomico dia loro forma concreta, iniziano a raccontare ciascuno la propria vicenda esistenziale. Ed è così che si alternano sul palco il racconto del padre, interpretato da un intenso Eros Pagni; quello della figlia, affidato alla vibrante recitazione di Gaia Aprea. E così si avvicendano il personaggio della madre e del figlio, mentre rimangono sulla scena, senza mai prendere la parola, i due bambini, assimilabili ai personaggi muti della tragedia greca, che presagiscono l’imminenza di un infausto destino.
Stempera la drammaticità del loro racconto l’arrivo sulla scena di Madama Pace, interpretata da un’abilissima Angela Pagano, che nella gestualità e nelle frasi pronunciate in spagnolo sembra richiamare il personaggio della Carmen di Georges Bizet, confermando ulteriormente la contaminazione di generi da parte del regista. E, intanto, sul muro che fa da sfondo al palco, in alcuni momenti si susseguono immagini delle vicende dei personaggi, creando così delle pause al loro racconto e conferendo alle loro parole una maggiore evidenza icastica.
Nel frattempo gli attori della compagnia ascoltano, ma rimangono ai margini, come se non riuscissero a lasciarsi scalfire dal dramma dei personaggi, come se l’arte e la vita non riuscissero mai pienamente a ricongiungersi, laddove l’una ri-vela l’altra, nel momento stesso in cui la svela.
I personaggi, quindi, non potranno mai avere una loro consistenza, così come le luci che si riflettono sulla scena non illumineranno mai veramente, rimanendo, invece, fredde e glaciali per tutto il tempo. Di loro non resta nulla, si dissolveranno repentinamente, lasciando un senso di vuoto che solo in parte riesce a colmare la musica che rievoca quella dei Gotan Project.