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Teatro Belli. Baby Jane e i fantasmi di Hollywood
In scena dal 26 febbraio al 30 marzo al Teatro Belli di Roma, in prima mondiale, Che fine ha fatto Baby Jane? è l'adattamento teatrale del celeberrimo film diretto da Robert Aldrich e sceneggiato da Lukas Heller (1962), a sua volta tratto dall'omonimo romanzo di Henry Farrell. In questo caso il termine adattamento, nella sua accezione più minorativa, delinea i contorni strutturali di un'opera(zione) in cui ambizioni e limiti coincidono fatalmente, e in cui la bravura delle due protagoniste, Sydney Rome e Francesca Bianco, riesce solo in parte a ridare ossigeno a un copione soffocato da un eccesso di zelo emulativo.
La storia, è il caso di dirlo, ha fatto Storia. Caposaldo di un genere, sospeso fra l'horror e il melodramma, che segnò la Hollywood di quegli anni e contribuì a rilanciare una Bette Davis sul viale del tramonto, è incentrata sul rapporto sadomasochistico fra le due sorelle Blanche (ruolo che fu di Joan Crawford) e Jane Hudson. La prima (Francesca Bianco), ex-attrice di grande successo costretta sulla sedia a rotelle a seguito di un incidente automobilistico provocato (forse) dalla sorella, mantiene quest'ultima (Sydne Rome), ex-bambina prodigio ormai dimenticata, con la quale convive e da cui subisce vessazioni e torture quotidiane. Persino la domestica, Elvira (Ashai Lombardo Arop), viene licenziata da Jane perchè troppo protettiva nei confronti della sorella. In compenso, per soddisfare le proprie ambizioni di riaffermazione, Baby Jane assume un pianista, Edwin Flagg (Fabrizio Barbone), con il quale instaura un rapporto ambiguo e reciprocamente profittatorio, che romperà gli equilibri della casa fino a una drammatica risoluzione finale.
Adattato da Franco Ferrini, lo spettacolo riscontra nella regia di Antonio Salines e nelle scenografie di Maurizio Varamo i suoi margini di maggiore ricerca e inventiva rispetto all'originale cinematografico. La messa in scena racchiude prepotentemente l'azione all'interno della villa, condensata e sezionata in quattro ambienti comunicanti collegati verticalmente da una scala e “filtrati” da un velatino di proscenio, invisibile, sul quale, in alcuni momenti chiave, vengono proiettati spezzoni del film a mo' di integrazione narrativa/omaggio. Il risultato ha il merito di accentuare il senso di ingabbiamento già presente nelle scenografie che furono di William Glasgow, sopperendo alla mancanza del montaggio con un uso sapiente delle luci che isola, senza celare il resto, gli spazi di focalizzazione narrativa. I personaggi, imprigionati nelle loro manie patologiche, riempiono i semiambienti in cui gravitano delle loro pulsazioni tenebrose, addensandole, a beneficio di un'immediata configurazione dei caratteri, ma rimanendone a loro volta avvinghiati, inseguendo l'azione a scapito dell'introspezione psicologica. Le interpretazioni, pur generose, risentono di questa saturazione e dunque faticano ancora di più a liberarsi dal vincolo di un copione freddamente fedele all'originale.
Il senso di decadenza, di oppressione, di sfuttamento che la pellicola di Aldrich svelava come angoli bui di una Hollywood – e di un'America – in balia dei propri fantasmi e delle proprie regole carnivore, sfumano in una pièce che, pur con il merito di aver aggiunto qualche tocco di ironia, dà l'impressione di accontentarsi di superare formalmente l'esame di adattamento, ma non quello, indispensabile, di rilettura.