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Teatro dell'Opera di Roma. La fantasmatica aurora di Turandot
Al Teatro dell'Opera di Roma dal 23 al 31 ottobre, dopo otto anni di assenza se si esclude la Stagione alle Terme di Caracalla, è tornata Turandot, la grande opera incompiuta pucciniana. Con un direttore come Pinchas Steinberg e l'allestimento sontuoso del Petruzzelli di Bari del 2009, l'ottima regia di Roberto De Simone e le voci di Evelyn Herlitzius nel ruolo della Principessa Turandot; Kamen Chanev in quello di Calaf e la commovente Liù di Carmela Remigio.
Il gelo della Principessa Turandot, composta da Puccini dal 1919 fino all'anno della morte, il 1924, e rimasta incompiuta, è un grande affresco sul femminile fatale e vendicativo: la Principoessa Turandot è infatti la reincarnazione di un'antenata (l'Ava di cui ripete anche nel finale ricostruito da Alfano, da Berio ed infine dall'attuale De Simone, e di cui Puccini parlò all'Adami ed al Simoni più volte nelle lettere) che ha subito una violenza che lei si è incaricata di vendicare su tutti i suoi pretendenti, negandosi a quell'amore per cui Liù morirà, trapassata da un pugnale, nel finale attestato come unico sia dal libretto sia dalla musica.
E' certo però che l'enigma di Turandot resiste al tempo, e si coniuga con quello di Puccini ed il grande travaglio nella composizione della sua ultima opera che in qualche modo attesta che il mito cortese ripreso da Wagner, ossia il Tristano, ed annotato su una pagina della Turandot da Puccini, sopravvive al tempo e dipinge un amore impossibile in Occidente che tuttora non trova lisi. La catarsi certamente si, da un'altra donna, Liù, la schiava del Re dei Tartari, Timur - bravissimo Roberto Tagliavini -, innamoratasi di Calaf, il Principe straniero che scioglierà gli enigmi di Turandot senza rivelare il suo nome. Enigma su enigma, nomen omen, che riprende anche il wagneriano racconto del cigno, Lohengrin, che termina tragicamente sulla richiesta inopportuna del nome, il dramma di Turandot ruota appunto intorno alla mancanza di fiducia di lei nell'amore e nella maledizione dell'Ava di cui si fa carico e personificazione. La musica stessa si infrange sulle parole perentorie, le poche che proferisce sono di condanna e la voce rotta di Evelyn Herlitzius (che forse non si trova a suo agio, lei wagneriana e straussiana, con l'italiano) profonde come da un'oscurità immane, perduta nell'averno del tempo. Solo Calaf, - il ben ardito Kamen Chanev, soprattutto nell'aria notturna che seguirà, “Nessun dorma”-, prova a distoglierla dal suo isolamento dentro una torre di ferro fra statue di terracotta - i costumi simbolici di Odette Nicoletti - che sembra presa da un racconto gotico inglese, una prigione che Nicola Rubertelli ha arricchito di alti scaloni, parate simboliche dietro cui scompare Turandot, figlia dell'Imperatore cinese Altoum, l'adeguato al ruolo Chris Merritt.
Quella che però permane come una voce sincera fra le asperità del nugolo di fumo da cui nasce e dove ritorna Turandot dopo aver emesso la condanna, è la Liù di Carmela Remigio: commovente e attoriale nel canto e nelle movenze affrante, merita un palco d'onore solo lei. Pinchas Steinberg ha diretto benissimo l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma, ogni tanto soverchiando le voci più tenui, mentre il Coro diretto da Gabbiani metteva i brividi alle richieste di compassione verso la Principessa crudele. Rimangono gli enigmi, anche quelli sciolti da Calaf, di Turandot, perchè, nonostante il sacrificio di Liù, il duetto cui pensava Puccini non ci sarà, e la Principessa non sembra aver pietà, piuttosto sbalordimento per il dono d'amore di Liù verso Calaf, non rivelando il suo nome. Ecco, si distingue appena l'aurora, quella dei racconti de I mille e un giorno – il contraltare de Le mille e una notte, in cui la morte è invece data da un principe ad una donna ed è programmata per l'alba – ma Turandot appare ferma, gelata dalla vittoria d'amore di Calaf.