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Teatro Eliseo Antonio e Cleopatra. Il Mausoleo di Eros
Il fondale buio e acquoso dell'Eliseo si inonda di voci, di ombre e di volti: appaiono, oltre ai narratori Demetrio e Filone, i due protagonisti di un'opera poco rappresentata e tanto complessa: Antonio e Cleopatra di Shakespeare (apparsa per la prima volta in scena per il Bardo nel 1607), per la regia postmoderna - in un bianco e nero abbacinante - e coraggiosa, nonché l'adattamento, di Luca De Fusco (traduzione di Gianni Garrera); prodotto dal Teatro Stabile di Napoli ed all'Eliseo di Roma fino al 9 febbraio.
Uno spettacolo intenso che si snoda su per una scalinata dalle molteplici facce - scene di Maurizio Balò -, il cui volto apparirà duplicato nella forma di un teschio, su tutte: come vuole Ran Bagno, curatore delle musiche, la Morte predomina - e sembra tracciata come nel teschio diamantino di Damien Hirst - a cominciare dal Mausoleo di Cleopatra, da quel punto di inesorabile non-ritorno che i suoni in WFS (Wavefield Synthesis), curati da Hubert Westkemper, trasmettono con la melodia in 3D, un Leitmotiv wagneriano che dall'inizio alla fine tempesta le corde del pubblico ed i volti dei personaggi, irrorandoli di un ulteriore spessore.
Gaia Aprea, nelle vesti di Cleopatra Regina d'Egitto, si muove come una belva affamata su questi scranni che sostengono la sua Luce – curatore Gigi Saccomandi – anche nel momento più buio e contraddittorio di tutti, come la sua natura: tradire il proprio unico amore rinunciando alla battaglia e sottomettendosi a Roma, costringendo alla fuga il condottiero dei condottieri, Antonio, per salvare la sua stirpe, sé stessa dall'ignominioso tronfio trionfo di Cesare Ottaviano, e l'erede che gli ha dato, Cesarione, figlio del primo Triumviro romano.
Lo spettacolo pone questa domanda fino in fondo, mostrando prima la debolezza femminile e poi la sua lascivia; la coerente decisione di non combattere Roma – per salvare il suo popolo ed i suoi figli – in fondo ci fa rabbrividire, soprattutto davanti agli aspidi della fine. La gloria dell'eros, nella sua drammatizzazione à la Salomé, ci irride e sconvolge quando il pensiero si ferma sul tradimento di Antonio col secondo matrimonio con Ottavia, sorella di Cesare Ottaviano, Imperatore. Durato poco però, perché Antonio con una scusa fugge da Roma e torna dalla Regina d'Oriente e dalle sue irresistibili braccia, benedetto da Eros e maledetto dagli dèi e da quella Ragione che tanto ben rappresenta con la sua formalità Cesare col volto di Giacinto Palmarini (un po' stentoreo nella parte talvolta).
Luca Lazzareschi, con la sua voce, e la sua possanza di statua - i costumi di Zaira de Vincentiis rilucono del sapore lontano del mitico tempo della gloria imperiale romana - s'introduce flessuosamente profondo nelle nostre orecchie con le parole di Antonio che, ripreso in primo piano, quasi irretisce nella sua agonia della sconfitta per una battaglia non combattuta, seguendo la fuga di Cleopatra, la donna amata. Troviamo che quest'uomo, in fondo, dimostra la sua potenza nel luogo in cui testimonia la sua resa e che quel che proferiva all'inizio alla domanda di quanto amore provasse per Cleopatra, cioè la sua risposta: “Vi è miseria nell'amore che può essere valutato”, era sincera. E che quel limite all'amor suo che era “un nuovo cielo ed una nuova terra” rispecchiava lo stesso valore riflesso nello scudo del condottiero.
Due magiche statue, l'una virile, scolpita nel marmo antico di bicipiti e torsi muscolosi, dal ricciolo romano e dagli zigomi ben incisi; dall'altra, la sinuosa maestra delle vampe di Eros, un femminile animalesco che si muove arrotolandosi su per le scale, attorcigliandosi nelle vesti, sulle quali son dipinti rigogliosi decori fioriti; queste gigantiche ombre dell'Eros danzano l'amore e la guerra attraverso le coreografie di Alessandra Panzavolta, che con il Balletto del San Carlo di Napoli testimonia, su facce senza volto, quanto il conflitto non abbia mai un nome preciso, ma si volga a incapsulare dentro di sé chi più ama.